16 dicembre 2011
Beirut
Due auto civili con targa turca sono state prese di mira in territorio siriano, nella regione frontaliera di Idlib, da uomini armati che non indossavano la divisa. La testimonianza è rilasciata all’agenzia Anadolu dagli stessi due cittadini turchi che affermano di esser stati attaccati a 15 chilometri di distanza dal capoluogo Idlib mentre erano diretti, via Siria, in Arabia Saudita. L’episodio è esemplare per introdurre la domanda: chi opera armato nelle regioni frontaliere della Siria? Il regime di Damasco sin dall’inizio delle proteste ha puntato il dito contro bande di terroristi finanziati e armati dai paesi confinanti, giustificando così il fatto che gli epicentri della rivolta sono tutti a ridosso delle frontiere con la Giordania (Daraa), col Libano (Homs) e con la Turchia (Idlib). La geografia della Siria attuale mostra però come tutti i principali centri urbani siano distanti poche decine di chilometri dalle frontiere: Damasco è a sessanta chilometri dalle alture occupate del Golan e a quaranta dal confine libanese; Aleppo è a sessanta dal confine turco; Hama, che è più all’interno, è lontana appena cinquanta chilometri in linea d’aria dal Libano, mentre Latakia sulla costa è a due passi dalla frontiera turca. Per trovare un centro abitato di rilievo distante più di cento chilometri dal confine più prossimo bisogna spostarsi al centro (Palmira), a est (Dayr az Zor) e al nord (Raqqa).
Se la Siria è in rivolta, non lo è necessariamente a causa di presunti infiltrati dai paesi vicini.
Anzi, le accese proteste e le massicce manifestazioni verificatesi in questi dieci mesi anche a Hama, Dayr az Zor e Palmira contribuiscono a dimostrare il carattere endogeno del movimento.
Da Idlib a Daraa, la giornata di ieri ha offerto un altro spunto per cercare di rispondere alla domanda cruciale su chi spara in Siria oggi: 27 soldati dell’esercito fedele al presidente Bashar al Assad sono stati uccisi in un agguato da disertori.
Se confermato, si tratta del colpo più sanguinoso inflitto dall’ormai attiva resistenza siriana contro il regime di Damasco. E ancora: mercoledì scorso sei siriani tra cui un bambino di nove anni e due libanesi sono stati feriti – e poi trasportati in un ospedale del nord del Libano – a ridosso della frontiera da colpi sparati dalle forze lealiste.
Da più parti si leggono in queste settimane fantasiose ricostruzioni di scenari bellici, secondo cui le forze occidentali – Nato, mercenari libici, soldati Usa, milizie salafite filo-saudite – starebbero stringendo d’assedio la Siria degli Assad, addensando truppe irregolari, o regolari sotto copertura, ai confini giordano e turco, il cui primo compito è fornire assistenza alle milizie siriane già operative nel territorio, addestrarle e armarle.
C’è chi parla esplicitamente di “scenario libico”, facendo assurgere la recentissima guerra di Libia come paradigma dell’interventismo occidentale contemporaneo nella regione, che ha invece una storia assai più antica e che, soprattutto, si è declinato in forme anche molto diverse fra loro. In questo senso, istruttivo e meritorio è il lavoro di alcuni giornalisti arabi che nelle ultime settimane si sono recati di persona a ridosso delle quattro frontiere aperte della Siria a cercare conferme o smentite degli scenari tracciati a tavolino dai presunti analisti comodamente seduti sulle loro sedie in Europa e Nordamerica.
Secondo i reportage di Afif Diab dalla Beqaa libanese, di Suleiman al Khalidi dall’Hatay turco, di un collaboratore anonimo della Reuters e di Mohammed ben Hussein dalla frontiera giordana, si apprende che da ottobre scorso ad alcuni reparti di disertori siriani si sono uniti gruppi di civili delle regioni più colpite dalla violenza e dall’occupazione militare (Idlib, Homs, Daraa, alcuni sobborghi di Damasco). Le armi a loro disposizione sono fucili e lanciagranate e provengono per lo più dal Libano e dall’Iraq. Dal Libano le armi sono arrivate già dai primi mesi delle proteste e della repressione grazie a una collaudata rete di trafficanti siro-libanesi, operativa sin dalla guerra civile (1975-90). Dall’Iraq fucili e altri armamenti leggeri hanno cominciato ad affluire più di recente, grazie ai forti legami tribali trans-frontalieri.
E se dal governo turco per ora arriva solo sostegno politico e logistico al comando dell’esercito siriano libero basato in Hatay, le armi passano a Idlib tramite commercianti locali.
Le fonti dei reportage sono trafficanti di armi, un leader tribale iracheno-siriano, attivisti anti-regime e un diplomatico di stanza a Damasco.
Dalle loro confidenze emerge anche che l’Arabia Saudita e altri paesi del Golfo finanziano parte di questo traffico, ma che gran parte dell’arsenale usato contro le forze lealiste dai militari unitisi alla rivolta e dagli attivisti arriva dall’interno: non solo durante le razzie seguite agli agguati, ma soprattutto corrompendo a vari livelli ufficiali dell’esercito e dei servizi di sicurezza.
Nonostante l’afflusso di armi leggere, lo squilibrio tra le forze in campo è più che evidente: le defezioni, simbolicamente importanti, sono numericamente insignificanti. La resistenza siriana riesce ora a ottenere risultati colpendo le truppe regolari in operazioni mordi-e-fuggi, in aree densamente abitate dove i tank avanzano con difficoltà, ma nessuna Bengasi siriana si è creata in questi lunghi dieci mesi. A sparare ai due cittadini turchi saranno dunque state le milizie siriane lealiste (shabbiha) in abiti civili, ma forse i due autisti non erano in viaggio di piacere nella Siria in fermento, quanto piuttosto corrieri d’armi o spalleggiatori turchi della neonata resistenza siriana.
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