Il primogenito della Signora dai capelli rossi Ilda,si chiama Antonio Pironti. : La voce dei senza voce: « "Ruby" e tricchete e tracchete.... | Homepage | A Sinistra (Comunisti) credono tutti di avere l'Aureola e noi l'Orecchino al naso.... »
22/01/2011
Il primogenito della Signora dai capelli rossi Ilda,si chiama Antonio Pironti.
boccassini1.jpgPressioni della Boccassini per salvare il figlio ?! Durante il talk Show "l'Ultima parola" su Rai 2 Sgarbi ritorna sulla vivenda di Antonio,il figlio della Pm Boccassini che fu coinvolto in una grossa rissa ad Ischia nel Luglio del 97.Se la cavò con una denuncia a piede libero. !! E il Gup decise di non processarlo neppure !!! Fu quando si accorse che il giovane Antonio Pironti era figlio della "Boccassini magistrato core di mamma" ???? !!!! Veramente un piccolissimissimo dubbietto mi è saltato nel mio cervellino....... ""Forse sbaglierò , se succedesse qualcosa a mio figlio e se avessi qualche potere ,forse lo metterei in atto come tutti i genitori . Mai come magistrato"". Il testimone ,Deputato Pdl Laboccetta : "si vociferò che fosse stato "GRAZIATO". E se fosse vero sarebbe curioso......" .Non soltanto curioso e sconcertante ; ma mamma Boccasini Ilda, dovrebbe dare le dimissioni da magistrato per aver "coperto" suo figlio indacato. La gente del Centrodestra non è stata mai "carogna" , molla l'osso subito,e lo mollerà anche per questo caso non andando a fondo e non dandole notizia roboante.Non è come le Sinistre che spolpano sempre l'osso fino al midollo,anche se si tratta soltanto di una "Passerina entrata dentro le lenzuola di Silvio nel suo letto privato" . .-(gioser)
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giovedì 12 gennaio 2012
LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI. Chi ha graziato il figlio della Boccassini? ...Il perche' lo si sa... | Forum Radicali.it
LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI. Chi ha graziato il figlio della Boccassini? ...Il perche' lo si sa... | Forum Radicali.it: IL GIOVANE DENUNCIATO INSIEME AD ALTRI AMICI DAVANTI A UNA DISCOTECA
Rissa a Ischia, nei guai il figlio della Boccassini
----------------------------------------------------------------- Il giovane denunciato insieme ad altri amici davanti a una discoteca Rissa a Ischia, nei guai il figlio della Boccassini DAL NOSTRO INVIATO ISCHIA - Il figlio del sostituto procuratore di Milano Ilda Boccassini, il venticinquenne Antonio Pironti, e' stato coinvolto l'altra notte a Ischia in una rissa nei pressi di una discoteca. E insieme con i suoi amici (e i loro rivali) e' stato denunciato. L'episodio e' accaduto poco prima delle cinque del mattino all'esterno del night "Il Valentino", nella zona di Ischia Porto. Pironti sta trascorrendo sull'isola, di cui e' abituale frequentatore, le vacanze estive, e nella notte tra lunedi' e martedi' era stato in compagnia di due coetanei, Lucio Grassi e Luca Matrone, entrambi napoletani. Che cosa abbiano fatto i tre prima di arrivare davanti al night dove poi e' scoppiata la rissa, e' difficile dirlo. Ma probabilmente nulla di piu' o di meno di quello che fanno tutti i giovani e giovanissimi durante le notti dell'estate ischitana: si sta un po' in discoteca, poi si va a prendere il gelato in piazza, quindi si arriva magari fino alla spiaggia e alla fine si ricomincia il giro daccapo. E il giro di Pironti, Grassi e Matrone e' finito davanti a quel locale sorvegliato da due forzuti fratelli, Vincenzo e Ciro Cofano, 32 e 33 anni, che al "Valentino" lavorano come buttafuori. Ed e' stato con loro che Pironti e i suoi amici se le sono date di santa ragione. Pare che al momento di entrare nel locale i tre ragazzi siano stati bloccati perche', secondo quanto hanno raccontato alcuni testimoni, sembravano un po' troppo su di giri, e i fratelli Cofano devono aver pensato che sulla pista da ballo avrebbero potuto creare problemi. Invece i problemi sono cominciati subito. Perche' tra i buttafuori e i tre ragazzi sono immediatamente volate parole grosse, e altrettanto in fretta si e' passati a far volare pugni e calci. Alla scena era presente un carabiniere in borghese, Mario Perrotta, 30 anni, che ha cercato di intervenire per calmare gli animi, ma ha rischiato di uscirne peggio di tutti: uno degli amici di Pironti, Lucio Grassi, lo ha infatti aggredito violentemente, forse senza nemmeno capire che aveva di fronte un carabiniere. Per lui e' poi scattata anche la denuncia di oltraggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. La rissa e' andata avanti fino a quando sono arrivati altri carabinieri che hanno bloccato i cinque e li hanno accompagnati in caserma. Grassi e Matrone, pero', hanno dovuto prima fermarsi al Pronto soccorso dell'ospedale Rizzoli: mettersi contro due buttafuori e' costato a entrambi parecchie ammaccature.
Bufi Fulvio
Pagina 12
(31 luglio 1997) - Corriere della Sera
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Rissa a Ischia, nei guai il figlio della Boccassini
----------------------------------------------------------------- Il giovane denunciato insieme ad altri amici davanti a una discoteca Rissa a Ischia, nei guai il figlio della Boccassini DAL NOSTRO INVIATO ISCHIA - Il figlio del sostituto procuratore di Milano Ilda Boccassini, il venticinquenne Antonio Pironti, e' stato coinvolto l'altra notte a Ischia in una rissa nei pressi di una discoteca. E insieme con i suoi amici (e i loro rivali) e' stato denunciato. L'episodio e' accaduto poco prima delle cinque del mattino all'esterno del night "Il Valentino", nella zona di Ischia Porto. Pironti sta trascorrendo sull'isola, di cui e' abituale frequentatore, le vacanze estive, e nella notte tra lunedi' e martedi' era stato in compagnia di due coetanei, Lucio Grassi e Luca Matrone, entrambi napoletani. Che cosa abbiano fatto i tre prima di arrivare davanti al night dove poi e' scoppiata la rissa, e' difficile dirlo. Ma probabilmente nulla di piu' o di meno di quello che fanno tutti i giovani e giovanissimi durante le notti dell'estate ischitana: si sta un po' in discoteca, poi si va a prendere il gelato in piazza, quindi si arriva magari fino alla spiaggia e alla fine si ricomincia il giro daccapo. E il giro di Pironti, Grassi e Matrone e' finito davanti a quel locale sorvegliato da due forzuti fratelli, Vincenzo e Ciro Cofano, 32 e 33 anni, che al "Valentino" lavorano come buttafuori. Ed e' stato con loro che Pironti e i suoi amici se le sono date di santa ragione. Pare che al momento di entrare nel locale i tre ragazzi siano stati bloccati perche', secondo quanto hanno raccontato alcuni testimoni, sembravano un po' troppo su di giri, e i fratelli Cofano devono aver pensato che sulla pista da ballo avrebbero potuto creare problemi. Invece i problemi sono cominciati subito. Perche' tra i buttafuori e i tre ragazzi sono immediatamente volate parole grosse, e altrettanto in fretta si e' passati a far volare pugni e calci. Alla scena era presente un carabiniere in borghese, Mario Perrotta, 30 anni, che ha cercato di intervenire per calmare gli animi, ma ha rischiato di uscirne peggio di tutti: uno degli amici di Pironti, Lucio Grassi, lo ha infatti aggredito violentemente, forse senza nemmeno capire che aveva di fronte un carabiniere. Per lui e' poi scattata anche la denuncia di oltraggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. La rissa e' andata avanti fino a quando sono arrivati altri carabinieri che hanno bloccato i cinque e li hanno accompagnati in caserma. Grassi e Matrone, pero', hanno dovuto prima fermarsi al Pronto soccorso dell'ospedale Rizzoli: mettersi contro due buttafuori e' costato a entrambi parecchie ammaccature.
Bufi Fulvio
Pagina 12
(31 luglio 1997) - Corriere della Sera
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CSD - Cronologia

Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato" - Onlus
Cronologia
Fonti: 'Giornale di Sicilia', 'la Repubblica', 'Corriere della Sera', 'La Stampa'.
4 Agosto 1995CSD - Cronologia: Prosciolto dal gip di Napoli il giudice Nicola Boccassini, accusato di associazione camorristica.
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Lo sport nazionale campano
Lo sport nazionale campano: Ma ci sono stravaganze ancora più clamorose nel pallottoliere di certa schizofrenia giudiziaria campana. A Palinuro, splendida località marina del Cilento, c'è stato a lungo un sindaco Dc, Romano Speranza. Ebbene, il suo è un vero e proprio record italiano, forse mondiale: ha subìto 500 (dicasi cinquecento) processi penali dalla procura di Vallo della Lucania per abuso d'ufficio. Speranza era accusato dai procuratori Nicola Boccassini (zio di Ilda la rossa) e Anacleto Dolce di aver rilasciato concessioni edilizie in assenza dello strumento urbanistico. Anziché unificare il tutto in un unico procedimento i magistrati incardinarono tutti e cinquecento i processi, uno per ogni concessione rilasciata dal Comune. Il perché lo diremo tra poco.
Speranza fu costretto a difendersi per cinquecento volte dalla stessa accusa e, se non avesse trovato un difensore come il penalista Felice Lentini, uno dei sempre più rari avvocati che non se la fanno addosso al cospetto di un magistrato, a quest'ora sarebbe ancora in giro per aule di tribunale. Dieci anni, cinquecento processi, cinquecento assoluzioni. Un'accusa in particolare ha del metafisico: mentre per 499 volte si contestava a Speranza di aver rilasciato licenze edilizie illegittime, nella cinquecentesima gli si addebitava il contrario. Cioè il sindaco di Palinuro aveva secondo i pm abusato del suo ufficio per "non" aver concesso i permessi a un certo signore. Si deve aggiungere altro? Ma perché fare 500 processi, con relativi aggravi di spese per lo Stato oltre che con lesione delle prerogative costituzionali dell'imputato, e non uno solo dal momento che la fattispecie era unica? Semplice: perché bisognava affidare altrettante perizie tecniche d'ufficio e incarichi difensivi. Si scoprirà poi che i due pm gestivano la procura sul "modello Milano". È storia nota che, ai tempi di Tangentopoli, a Milano non finivi dietro le "sbarre preventive" di Antonio Di Pietro (nella foto) e del pool se a difenderti erano Federico Stella o Antonio Lucibello: il prototipo venne assunto, su scala ridotta, a Vallo della Lucania in tema di periti di tribunale e avvocati. L'unica differenza sta nel fatto che Boccassini e Dolce finirono dopo qualche anno in manette. Oggi uno si gode la pensione da magistrato e l'altro fa l'avvocato. Speranza è stato rieletto sindaco nel 2007 nelle liste di centrodestra dopo aver fatto il tesoriere provinciale dell'Udc prima che il partito finisse nelle mani del "mai stato anticomunista" Ciriaco De Mita (copyright del Corriere della Sera).
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Speranza fu costretto a difendersi per cinquecento volte dalla stessa accusa e, se non avesse trovato un difensore come il penalista Felice Lentini, uno dei sempre più rari avvocati che non se la fanno addosso al cospetto di un magistrato, a quest'ora sarebbe ancora in giro per aule di tribunale. Dieci anni, cinquecento processi, cinquecento assoluzioni. Un'accusa in particolare ha del metafisico: mentre per 499 volte si contestava a Speranza di aver rilasciato licenze edilizie illegittime, nella cinquecentesima gli si addebitava il contrario. Cioè il sindaco di Palinuro aveva secondo i pm abusato del suo ufficio per "non" aver concesso i permessi a un certo signore. Si deve aggiungere altro? Ma perché fare 500 processi, con relativi aggravi di spese per lo Stato oltre che con lesione delle prerogative costituzionali dell'imputato, e non uno solo dal momento che la fattispecie era unica? Semplice: perché bisognava affidare altrettante perizie tecniche d'ufficio e incarichi difensivi. Si scoprirà poi che i due pm gestivano la procura sul "modello Milano". È storia nota che, ai tempi di Tangentopoli, a Milano non finivi dietro le "sbarre preventive" di Antonio Di Pietro (nella foto) e del pool se a difenderti erano Federico Stella o Antonio Lucibello: il prototipo venne assunto, su scala ridotta, a Vallo della Lucania in tema di periti di tribunale e avvocati. L'unica differenza sta nel fatto che Boccassini e Dolce finirono dopo qualche anno in manette. Oggi uno si gode la pensione da magistrato e l'altro fa l'avvocato. Speranza è stato rieletto sindaco nel 2007 nelle liste di centrodestra dopo aver fatto il tesoriere provinciale dell'Udc prima che il partito finisse nelle mani del "mai stato anticomunista" Ciriaco De Mita (copyright del Corriere della Sera).
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la famiglia boccassini
Cronache Salerno Notizie Salerno Provincia - Home :::: E' scomparso Nicola Boccassini, il giudice che incastrò il clan Mirabile
E’ scomparso il giudice Nicola Boccassini, zio del pm di Milano Ilda Boccassini, nella sua casa di piazza Porta Rotese.
I funerali oggi nella chiesa di San Domenico alla ore undici e trenta.
Magistrato di lungo corso la sua carriera venne stroncata da una serie di indagini che lo portarono all’espulsione dall’ordine giudiziario e gli negarono anche la richiesta di pensionamento anticipato. I guai comunciarono nel 95 quando l ex procuratore capo di Vallo della Lucania fu rinviato a giudizio insieme con altre 31 persone, nell' ambito dell' inchiesta sulle tangenti pagate in cambio dell' "aggiustamento" di processi. Il provvedimento fu emesso dal gip Luigi Esposito. Boccassini, fu accusato di associazione per delinquere, concussione, corruzione, abuso d' ufficio, falso in atto pubblico e favoreggiamento. Cominciarono per lui sette anni di processi, tre gradi, fino alla sentenza definitiva di condanna in Cassazione.
Il Csm, pur di decidere la sua espulsione non gli consentì neppure di garantirsi con un difensore. Nominarono un avvocato di ufficio, lì di passaggio per palazzo dei Marescialli, al quale vennero concesse tre ore per conoscere le carte.La sentenza del Csm venne emessa nel settembre del 2002 e confermata dalla Cassazione l’anno successivo. La sua condanna penale per consussione fu motivo di rigetto anche nel tentativo di ricorso al Consiglio di Stato nel 2007 contro la sentenza emessa dal Tar del Lazio. emessa nel luglio del 2006. Come detto una lunga battaglia legale che non gli permise di ricostruire la carriera. Eppure la sua carriera fu costellata da colpi importanti.
Nel ’75, da giudice istruttore interrogò in America Masino Buscetta nell’ambito di un processo per traffico di droga nel quale fu coinvolto anche un salernitano, Carlo Zippo.Nell’86-87, come sostituto procuratore generale sostenne l’accusa contro il clan di Mario Mirabile. Lascia i figli Betty, Marco, Rossella e Marina. Chi in magistratura, chi nelle libere professioni, chi nella pubblica amministrazione con il rigore della preparazione e della serietà.
Amava ripetere ai pochi amici che gli erano rimasti:
«Rispetto oggi e rispetterò sempre la sentenza di condanna dei magistrati pronunciata nei miei confronti. Rispetto, ma non posso condividere, il provvedimento disciplinare di espulsione dopo che avevo chiesto di pensionarmi. Impugnerò in Cassazione questo provvedimento del Csm, adottato con una inedità severità del tutto sconosciuta ad altri casi analoghi. Chiederò la revisione del processo penale». Invece è morto perdendo la sua ultima battaglia.
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E’ scomparso il giudice Nicola Boccassini, zio del pm di Milano Ilda Boccassini, nella sua casa di piazza Porta Rotese.
I funerali oggi nella chiesa di San Domenico alla ore undici e trenta.
Magistrato di lungo corso la sua carriera venne stroncata da una serie di indagini che lo portarono all’espulsione dall’ordine giudiziario e gli negarono anche la richiesta di pensionamento anticipato. I guai comunciarono nel 95 quando l ex procuratore capo di Vallo della Lucania fu rinviato a giudizio insieme con altre 31 persone, nell' ambito dell' inchiesta sulle tangenti pagate in cambio dell' "aggiustamento" di processi. Il provvedimento fu emesso dal gip Luigi Esposito. Boccassini, fu accusato di associazione per delinquere, concussione, corruzione, abuso d' ufficio, falso in atto pubblico e favoreggiamento. Cominciarono per lui sette anni di processi, tre gradi, fino alla sentenza definitiva di condanna in Cassazione.
Il Csm, pur di decidere la sua espulsione non gli consentì neppure di garantirsi con un difensore. Nominarono un avvocato di ufficio, lì di passaggio per palazzo dei Marescialli, al quale vennero concesse tre ore per conoscere le carte.La sentenza del Csm venne emessa nel settembre del 2002 e confermata dalla Cassazione l’anno successivo. La sua condanna penale per consussione fu motivo di rigetto anche nel tentativo di ricorso al Consiglio di Stato nel 2007 contro la sentenza emessa dal Tar del Lazio. emessa nel luglio del 2006. Come detto una lunga battaglia legale che non gli permise di ricostruire la carriera. Eppure la sua carriera fu costellata da colpi importanti.
Nel ’75, da giudice istruttore interrogò in America Masino Buscetta nell’ambito di un processo per traffico di droga nel quale fu coinvolto anche un salernitano, Carlo Zippo.Nell’86-87, come sostituto procuratore generale sostenne l’accusa contro il clan di Mario Mirabile. Lascia i figli Betty, Marco, Rossella e Marina. Chi in magistratura, chi nelle libere professioni, chi nella pubblica amministrazione con il rigore della preparazione e della serietà.
Amava ripetere ai pochi amici che gli erano rimasti:
«Rispetto oggi e rispetterò sempre la sentenza di condanna dei magistrati pronunciata nei miei confronti. Rispetto, ma non posso condividere, il provvedimento disciplinare di espulsione dopo che avevo chiesto di pensionarmi. Impugnerò in Cassazione questo provvedimento del Csm, adottato con una inedità severità del tutto sconosciuta ad altri casi analoghi. Chiederò la revisione del processo penale». Invece è morto perdendo la sua ultima battaglia.
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domenica 8 gennaio 2012
Bashar al Assad
Nir Rosen è uno dei giornalisti americani più esperti e controversi che seguono il medio oriente. Ha vissuto a lungo in Iraq, dopo l’invasione americana, e ora fa base in Libano. Questo articolo è stato pubblicato sul sito di al Jazeera.


Bashar al Assad, una manifestazione alawita pro Assad
Mentre stiamo lasciando la città di Homs, al centro del paese, Abu Laith estrae da sotto la camicia una pistola Llama 9 millimetri, la carica e la sistema tra i sedili. E’ un sergente della Sicurezza di stato siriana e ha scelto di guidare un piccolo taxi di fabbricazione cinese per sfuggire all’attenzione degli uomini armati a caccia dei membri delle forze di sicurezza. Siamo diretti verso nord, verso il suo villaggio di Rabia, nel governatorato di Hama, e passiamo di fianco a negozi crivellati di colpi d’arma da fuoco. “Qui c’era un cecchino” mi dice a un certo punto della strada. “Ha sparato a sei pulman militari”. Passiamo di fianco a un edificio dei militari già bersagliato dagli attacchi dei combattenti dell’opposizione armata. “Qui c’era una statua dell’ex presidente Hafez”, spiega, indicandomi un piedistallo ormai vuoto.
Chiaramente offeso, aggiunge: “L’hanno abbattuta e sostituita con una scimmietta viva”. Abu Laith appartiene alla setta degli alawiti, che costituisce all’incirca il 10 percento della popolazione siriana. Gli arabi sunniti sono il 65 per cento, mentre le comunità dei curdi sunniti e dei cristiani costituiscono il 10 per cento ciascuna. Il resto è dato da drusi, sciiti, ismaeliti e altri gruppi minoritari. Da quando i baathisti sono ascesi al potere, l’appartenenza alle sette è diventata tabù, onnipresente ma mai nemmeno citata in pubblico, al punto che chi contravviene al divieto può essere punito severamente. I pregiudizi, nelle varie forme del razzismo, sessismo e settarismo, esistono in tutte le società, ma in tempi di crisi l’identità collettiva spesso finisce per dominare le relazioni sociali.
L’identità è cosa complessa e l’appartenenza alle diverse sette etnico- religiose è solo un fattore dell’identità siriana. La classe sociale, la professione, il nazionalismo, l’identità regionale e altri fattori sono tutti estremamente importanti. Ma a queste sette si appartiene dalla nascita, e solo pochi, fatta eccezione per la classe dominante ricca, supera queste classificazioni, che di norma sono evidenti già dal nome e dal luogo di nascita. Così come nei Balcani, l’identità religiosa spesso è un’identità culturale e conduce a divisioni simili a quelle etniche, anche all’interno di gruppi che parlano la stessa lingua. Poco si sa della storia della fede alawita, persino all’interno della stessa comunità alawita, perché il suo credo e le sue pratiche sono note solo ai pochi iniziati.
Assomiglia assai poco alle dottrine più comuni dell’Islam e prevede la fede nella trasmigrazione dell’anima, la reincarnazione, la divinità di Ali ibn Abi Talib, quarto Califfo e cugino del profeta Maometto, e una santa trinità composta da Alì, Maometto e uno dei compagni del profeta, Salman al Farisi. Un fattore comune dell’identità alawita è il timore dell’egemonia sunnita, dovuto a un passato di persecuzioni finite solo con la caduta dell’impero ottomano. A partire dagli anni Sessanta, il regime siriano ha incoraggiato soprattutto i contadini alawiti a migrare dalle regioni di montagna verso le pianure, concedendo loro il possesso delle terre che erano appartenute a un’élite prevalentemente sunnita. Ma a cominciare dall’inizio delle rivolte di quest’anno, alcuni hanno rimandato la propria famiglia nelle zone rurali in cerca di sicurezza. Yahya al Ahmad, un medico alawita di Homs mi spiega che la sua comunità è guardata con disapprovazione, perché si è spostata e ha trovato lavoro nell’apparato statale e nelle imprese.
“I sunniti dicono che abbiamo rubato i loro posti di lavoro e che dobbiamo tornarcene nelle campagne”, mi spiega. Un amico alawita mi dice di come si è sentito offeso nel vedere in tv i dimostranti sunniti che a Latakia gridavano che avrebbero rimandato il presidente Bashar “alla fattoria”. Per lui significa che i sunniti vogliono che tutti gli alawiti tornino ai propri villaggi. “La condizione degli alawiti non è mai stata invidiabile” ha scritto la storica Hanna Batatu. “Sotto gli ottomani hanno subito abusi, oltraggi e varie forme di oppressione amministrativa; talvolta, donne e bambini sono stati fatti prigionieri e venduti”. Il mandato francese che sostituì l’impero ottomano diede alle minoranze maggiore autonomia, indebolendo la preesistente élite sunnita, mentre gli alawiti chiedevano il riconoscimento da parte francese di uno stato autonomo. Le minoranze, in particolare gli alawiti, identificarono allora nel partito baathista al potere e nella sua ideologia pan-arabica uno strumento per superare gli stretti confini delle diverse identità settarie; al contempo, l’occupazione nel settore pubblico e nell’esercito diede modo a molti di migliorare la propria condizione. Nel 1955 la maggioranza dei sottufficiali era alawita, e in breve anche il comitato militare del partito si trovò sotto controllo alawita. Erano gli alawiti a decidere chi entrava nelle accademie militari, scegliendo tra le persone che provenivano da strati sociali fidati, spesso alawiti o sunniti delle zone rurali, e incoraggiando gli alleati più leali a entrare nelle unità pretoriane. Nel 1970 salì al potere Hafez al Assad, ministro alawita della Difesa ed ex funzionario militare. Concentrò il potere nelle mani di parenti e amici stretti, compresi molti alawiti provenienti dal governatorato di Latakia, sua regione natale, pur promuovendo anche alcuni colleghi dell’accademia militare sunnita. Con il nepotismo di Assad, la setta si trovò presente in modo sproporzionato nelle istituzioni. Lo stato, detto persino “assadismo”, subentrò alla religione come fulcro dell’identità settaria.
Gli alawiti sono sempre stati rifiutati dalla corrente predominante dell’islam. Per essere accettato come guida, Assad dovette convincere i sunniti e gli stessi alawiti che questi ultimi rientravano in quella corrente predominante. Sebbene gli alawiti abbiano una forte identità comune e continuino a visitare i mazar (i santuari), e tendenzialmente prevedano la partecipazione di uno sceicco a funerali e matrimoni, non sanno esattamente cosa ciò significhi. Joshua Landis, direttore del centro per gli studi sul medio oriente della University of Oklahoma, ha rivelato che gli alawiti non ricevono un’istruzione in merito alla propria religione, tanto che i manuali in uso nelle scuole siriane non fanno nemmeno uso della parola “alawita”. “L’istruzione islamica nelle scuole siriane è tradizionale, rigida e sunnita – ha scritto – Il ministero dell’Istruzione non tenta in nessun modo di inculcare nozioni di tolleranza e rispetto per le tradizioni religiose diverse da quelle dell’islam sunnita”. Il cristianesimo, nota Landis, ha costituito un’eccezione.
Il regime ha negato agli alawiti qualsiasi spazio pubblico per praticare la propria fede; non ha riconosciuto un consiglio alawita che avrebbe potuto stilare norme religiose e che sarebbe stato uno strumento utile a spiegare la religione alawita agli altri, per ridurre i sospetti su quella che molti siriani percepiscono come una fede misteriosa. La perdita del ruolo tradizionale dei capi di comunità ha frammentato la setta, impedendo ai suoi adepti di definire posizioni unitarie e di instaurare un dialogo in quanto comunità con le altre sette siriane, e rafforzando in questo modo le paure e la diffidenza settarie. E’ difficile dire quali fattori definiscano l’appartenenza alla setta, se non il fatto di essere nati da genitori alawiti. Poiché la loro identità si fonda sul ruolo guida di Assad, hanno adottato un motto come “Assad per sempre”, che impedisce loro di distaccarsi dal regime e di immaginare una Siria senza Assad. Gli alawiti che osano opporsi al regime credono che incorreranno in una speciale punizione a causa del loro “tradimento”.
La rivolta dei Fratelli musulmani iniziata nel 1976, che ha portato alla guerra civile tra il ’79 e l’82, ha condizionato il modo in cui gli alawiti leggono le rivolte attuali. All’epoca, i Fratelli musulmani avevano tentato di riunire i sunniti in una lotta settaria. Uccisero molti intellettuali, giudici e medici alawiti. Il massacro dei candidati ufficiali nell’accademia militare di Aleppo nel 1979, insieme all’assassinio dello sceicco alawita Yusuf Sarem, sono ancora vivi nella memoria della comunità. La maggioranza sunnita, dal canto suo, ricorda la brutalità con cui è stata schiacciata la rivolta dei Fratelli musulmani: l’organizzazione è stata annientata in Siria e ancora oggi è largamente assente nelle attuali rivolte, anche se la maggior parte dei dimostranti odierni è costituita da sunniti conservatori. Quella di quest’anno è una rivolta popolare, particolarmente sentita tra i poveri, a differenza della sommossa dei Fratelli musulmani (che, per quanto abbiano perso molta credibilità dopo la repressione, continuano a essere influenti nell’opposizione che fomenta le paure alawite).
Nel 1981, lo storico Hanna Batatu scrisse: “A favorire la coesione nella congiuntura attuale è il forte timore, diffuso tra gli alawiti di tutti gli strati sociali, che su di loro potrebbero ripercuotersi conseguenze terribili se il regime esistente dovesse essere destituito dal potere o collassare”. Gli alawiti ritengono di essere più “liberali” e laici dei sunniti: consumano alcol, vivono più liberamente i contatti tra uomini e donne, l’abbigliamento e il comportamento femminili sono più occidentali. Si sentono offesi dalle voci diffuse dalla maggioranza sunnita, secondo le quali le loro pratiche religiose prevedono orge; così come li offende sentir dire che la Siria è un regime alawita e che per questo sarebbero privilegiati. In realtà, gli alawiti appoggiano la famiglia Assad in sé più che il regime, tant’è vero che criticano prontamente la corruzione dell’amministrazione statale.
Non potendo mobilitarsi come alawiti, si rivolgono alla famiglia al potere per seguirne la guida. Il regime però agisce nel proprio interesse, non in quello degli alawiti. Il blogger alawita Karfan ha scritto: “Cancellando tutte le forme di identità religiosa e impedendo agli alawiti di costruirsene un’altra altrove, gli alawiti sono stati semplicemente trasformati in una sorta di tribù, unita intorno a un unico obiettivo: mantenere il re al potere. Intanto tutti continuano a parlare di un ‘regime alawita’ e ad addossare tutte le sue responsabilità agli alawiti. Saremo destinati a portare il fardello delle colpe delle stesse persone che hanno distrutto la nostra religione”. Quando Hafez al Assad prese il potere, favorì la secolarizzazione del Partito baathista, fiaccandolo per trasformarlo in un partito pro Assad.
La solidarietà alawita e il sostegno di alcune ricche famiglie sunnite consolidarono il regime. All’indebolimento del Partito baathista seguì anche quello dei sindacati e delle organizzazioni imprenditoriali; il vuoto sociale fu riempito dai sunniti conservatori, le cui organizzazioni di beneficenza poterono svolgere un ruolo di crescente importanza. Anche i membri del clero sunnita ottennero qualche libertà (una decisione che, se in un primo momento aumentò i sostenitori del regime, ora alimenta le divisioni tra i sunniti e i servizi di sicurezza dominati dagli alawiti). La debolezza del partito baathista significa anche che il regime non può mobilitare gli abitanti intorno a nulla di diverso da Bashar al Assad, che ha preso il potere dopo la morte del padre, nel 2000. Tant’è vero che di questi tempi è facile capire se ci si trova in una zona alawita: sono luoghi in cui tutto lo spazio disponibile è tappezzato di immagini del presidente Bashar, del fratello Maher o del padre Hafez (mentre gli uomini sfrecciano avanti e indietro sulle moto, tutti con indosso le magliette di Bashar). Parlare con accento alawita può essere d’aiuto a superare i posti di blocco militari.
Il tassista che mi ha portato nel quartiere di Duma, una roccaforte dell’opposizione a Damasco, è un alawita di Latakia. Ha parlato con gli ufficiali al posto di blocco con l’accento alawita, sostenendo che fossi libanese; ci hanno fatto passare senza nemmeno guardare la mia carta d’identità. Di ritorno nel governatorato di Hama, invece, Abu Laith si preoccupa dei posti di controllo presidiati da uomini dell’opposizione. E’ pienamente consapevole dell’identità culturale di ognuno dei villaggi circostanti, e abbandona la strada principale per evitare l’irrequieta città sunnita di Hama. Passiamo dal povero villaggio alawita di Alamein, nei pressi di Tumin. “Tumin è un villaggio cristiano – mi spiega – Dei cristiani qui ci si può fidare. Tumin è ricca e la gente è molto buona”. Facciamo salire un autostoppista diretto a Rabia; è un soldato di ritorno dal lavoro. Sembra rilassarsi quando vede chi guida. Aveva paura di stare sulla strada, racconta, “paura dei terroristi”. Veste in abiti civili. “Perché mi farebbero fuori”, spiega. E’ ostile a tutti i sunniti, che ritiene responsabili della brutalità con cui sono stati uccisi i soldati. Abu Laith è a disagio: “Non sono tutti così”, ammonisce. I pullman pubblici ora attraversano Rabia per evitare i villaggi sunniti “meno sicuri”.
Grandi barriere di pietra bloccano l’ingresso alla città. Tre uomini armati di fucile e con le cinture foderate di munizioni ci fanno cenno di rallentare, fino a quando non riconoscono Abu Laith. Passiamo di fianco ad altri uomini che pattugliano la zona in moto con il fucile a tracolla e ci dirigiamo verso il cimitero cittadino. Forse un migliaio di persone partecipa al funerale di un soldato, Naeem Tarif, ucciso ad Hama. Molti dei partecipanti hanno con sé un’arma; alcuni bambini sventolano immagini del presidente. La strada che lascia la città in direzione ovest è anch’essa bloccata da massi di pietra e da un posto di blocco. Diversi uomini, tutti armati, se ne stanno seduti in un piccolo capanno di legno, che su una parete reca la scritta “Dio, Siria e Bashar, e nient’altro”. Molte strade di Rabia non sono asfaltate. Nel centro città troviamo una statua color rame lucido dell’ex presidente Hafez al Assad che con una mano brandisce una spada e nell’altra tiene un ramoscello d’olivo. Gli abitanti l’hanno fatta innalzare a proprie spese un mese prima, come mi racconta Abu Laith. “A Rabia ci sono solo scuole, niente parchi giochi o altro”, si lamenta Abu Laith. Mi porta alla casa del padre, dove il figlio di sei anni mi saluta chiedendomi immediatamente: “Stai coi nostri o coi loro?”.
“E tu con chi stai?”, gli chiede il padre. “Io sto con la Siria”. Gli uomini della sicurezza come Abu Laith sono da sempre più occupati degli altri, e raramente riescono a fare visita alle famiglie. Ha quattro fratelli nelle forze di sicurezza e uno disoccupato. “La maggior parte degli uomini qui fa parte delle forze di sicurezza – mi spiega – ma abbiamo pochissimi ufficiali. Non ci permettono di diventarlo”. Quanto a quei giorni d’agosto, Rabia ha pagato con dieci “martiri” delle forze di sicurezza e altri abitanti, forse 15, sono stati feriti negli scontri con i combattenti dell’opposizione armata. Altri due ufficiali delle forze di sicurezza di Rabia, due sergenti, sono stati uccisi alcuni giorni più tardi. Facciamo visita alla famiglia di Naeem Tarif, l’uomo di cui abbiamo visto il funerale poco prima, in una tenda fuori casa. Tarif aveva 40 anni, era un sergente con vent’anni di carriera.
E’ stato ucciso ad Hama una settimana fa, ma il suo corpo è stato trovato solo il giorno del mio arrivo. E’ stato decapitato, e il suo corpo bruciato, mi racconta il fratello. I video che ritraggono uomini armati mentre si liberano del corpo, trovati su alcuni cellulari sequestrati, sono stati trasmessi in tv e su Internet. “Abbiamo paura”, mi dice un nipote. “Tutto il villaggio è pronto a sacrificarsi per la nazione”, proclama un altro. Sono spaventati dai gruppi armati. “Già in passato sono stati qui, come cellule dormienti”, dice un parente. Sono tutti furenti con i mezzi di comunicazione internazionali perché non raccontano quanto sta succedendo loro. Incontro la famiglia di Issa Bakir, che da undici anni è sergente di polizia ad Aleppo.
Dopo aver fatto visita alla sua famiglia a Rabia, il 5 luglio, Issa stava tornando ad Aleppo, passando per Hama. E’ stato fermato a un posto di blocco. E’ stato colpito alla testa con un bastone, poi gli hanno tagliato la gola. “L’hanno fermato, hanno bruciato la macchina, l’hanno sgozzato e l’abbiamo trovato vicino alla moschea”, mi racconta il padre. Il fratello di Bakir lavorava con lui nella polizia di Aleppo, ma ora per andare al lavoro passa per Latakia, per evitare Hama. “L’hanno ucciso perché era alawita – continua il padre – I miei figli e io siamo un sacrificio offerto per la patria. Non siamo settari. Prima i nostri rapporti (con i sunniti) erano normali”. E’ lo stato che deve occuparsi di rendere giustizia al figlio, mi dice: “Non vogliamo vendetta. Perché non ci deve essere una logica settaria in Siria”. Non lontano vive Muhamad Khazem, un sergente della sicurezza di stato; ha 46 anni, è grande e grosso e riposa a letto, ferito. Mi mostra il foro d’ingresso di una pallottola, appena sotto la gola, e il punto da cui è uscita, sulla schiena, giusto una settimana prima. Lui e altre decine di uomini della sicurezza erano in missione per rimuovere i blocchi stradali dell’opposizione, quando è stato colpito. “E’ al Qaeda – sostiene il fratello – Ho combattuto nella guerra del ’73. Fosse stato Israele a ferire un siriano, l’avrebbero portato in ospedale, e se fosse morto l’avrebbero sepolto dignitosamente.
Gli israeliani hanno più compassione di questi altri, che sono selvaggi”. Rabia confina con due villaggi sunniti: Tizeen e Kifr Tun. L’elettricità viene da Tizeen e gli abitanti sostengono che i sunniti della città vicina di recente abbiano tagliato la linea elettrica. Li accusano anche di aver ucciso due uomini alawiti sei giorni prima. Gli alawiti di Rabia dicono che i villaggi sunniti di Mitneen, Arzi e Kifr Tun hanno espulso le famiglie alawite, e Rabia ha accolto gli sfollati. Il contadino Hamid Diab e i suoi otto figli sono stati tra le trenta famiglie espulse da Kifr Tun, dove vivevano dal ’59. Racconta che gli alawiti in città sono stati minacciati. Li hanno avvisati: “Vi sgozzeremo”. Una settimana prima, di mattina, erano stati attaccati da uomini armati. “Hanno bruciato pneumatici e hanno sparato per spaventarci”, racconta. “Alcuni sunniti sono brave persone e non l’hanno accettato: è stato un sunnita ad aiutarci a uscire”. Sostiene che uno dei membri del commando era un beduino che si fa chiamare Dahib al Thawra, “macellaio della rivoluzione”. Dice che gli abitanti di Rabia li hanno accolti bene, ma che hanno lasciato tutto a Kifr Tun. Ora non hanno accesso alle loro fattorie o ai loro orti. Non c’erano mai stati problemi prima della rivolta, sostiene, e i suoi figli erano andati a scuola con i bambini sunniti. Sospetta che prima l’odio fosse nascosto.
“E’ stata la gente del villaggio ad attaccarci. Erano usciti allo scoperto durante il Ramadan, quando avevano inviato il loro saluto a Bandar e Arur”, racconta, riferendosi al potente principe saudita Bandar bin Sultan e allo sceicco agitatore siriano Adnan al Arur. “Adorano tutti Arur da quelle parti, quando parlava alzavano il volume, così potevamo sentirlo da casa nostra”. Hamid mi dice che lo stesso giorno gli abitanti di Kifr Tun hanno assalito un alawita del villaggio di Addas mentre stava attraversando la città in moto, cospargendolo di benzina. Ha preso fuoco, ma altri abitanti l’hanno salvato. Non c’erano forze di sicurezza nel paese, mi dice. Solo una stazione di polizia nel villaggio alawita di Jarjara, che aveva competenza sui tanti villaggi della zona. “Non avevamo armi, altrimenti avremmo risposto al fuoco”, dice Hamid. “Le forze di sicurezza hanno bisogno dei carri armati per entrare nei villaggi. L’opposizione ha bloccato le strade. L’esercito deve entrare nei villaggi, ma è troppo occupato ad Hama. Perché lo stato temporeggia?”. Il padre di Abu Laith, Abu Iyad, soldato in pensione, è d’accordo: “Solo l’esercito può risolvere la situazione. Se rispondiamo, sarà una risposta settaria, gli altri villaggi si uniranno a loro e saranno più di noi”.
Per i vicini sunniti, Rabia è altrettanto preoccupante, perché rappresenta i fanatici alawiti, sostenitori del regime. Firas, uno degli organizzatori dell’opposizione nella città di Rasta, mi racconta del cugino Muhamad Hussein Shahul, un tassista 35enne che non partecipa all’attività dell’opposizione. A luglio, Shahul ha portato quattro operai che tornavano a casa, a Tizeen, dal Libano. La strada che attraversava la città di Hama era chiusa perché erano in corso degli scontri, per cui sono passati per la città cristiana di Kfarbo e poi da Rabia, dove, dice Firas “una banda di alawiti fedeli ad Assad” ha teso loro un’imboscata. Un passeggero è sfuggito, ma gli altri quattro uomini sono stati torturati e giustiziati. I cadaveri sono stati lasciati nella macchina, abbandonata vicino alla città di Masyaf prima di dare la notizia alle famiglie. “Non abbiamo potuto andarci noi”, continua suo cugino, “perché ci avrebbero uccisi”. I funzionari dell’esercito di Rastan hanno coordinato l’intervento con i colleghi di Masyaf, che hanno portato il corpo di Muhamad al confine con un villaggio alawita, dove la famiglia ha potuto recuperarlo per dargli sepoltura.
Bashar al Assad, una manifestazione alawita pro Assad
Mentre stiamo lasciando la città di Homs, al centro del paese, Abu Laith estrae da sotto la camicia una pistola Llama 9 millimetri, la carica e la sistema tra i sedili. E’ un sergente della Sicurezza di stato siriana e ha scelto di guidare un piccolo taxi di fabbricazione cinese per sfuggire all’attenzione degli uomini armati a caccia dei membri delle forze di sicurezza. Siamo diretti verso nord, verso il suo villaggio di Rabia, nel governatorato di Hama, e passiamo di fianco a negozi crivellati di colpi d’arma da fuoco. “Qui c’era un cecchino” mi dice a un certo punto della strada. “Ha sparato a sei pulman militari”. Passiamo di fianco a un edificio dei militari già bersagliato dagli attacchi dei combattenti dell’opposizione armata. “Qui c’era una statua dell’ex presidente Hafez”, spiega, indicandomi un piedistallo ormai vuoto.
Chiaramente offeso, aggiunge: “L’hanno abbattuta e sostituita con una scimmietta viva”. Abu Laith appartiene alla setta degli alawiti, che costituisce all’incirca il 10 percento della popolazione siriana. Gli arabi sunniti sono il 65 per cento, mentre le comunità dei curdi sunniti e dei cristiani costituiscono il 10 per cento ciascuna. Il resto è dato da drusi, sciiti, ismaeliti e altri gruppi minoritari. Da quando i baathisti sono ascesi al potere, l’appartenenza alle sette è diventata tabù, onnipresente ma mai nemmeno citata in pubblico, al punto che chi contravviene al divieto può essere punito severamente. I pregiudizi, nelle varie forme del razzismo, sessismo e settarismo, esistono in tutte le società, ma in tempi di crisi l’identità collettiva spesso finisce per dominare le relazioni sociali.
L’identità è cosa complessa e l’appartenenza alle diverse sette etnico- religiose è solo un fattore dell’identità siriana. La classe sociale, la professione, il nazionalismo, l’identità regionale e altri fattori sono tutti estremamente importanti. Ma a queste sette si appartiene dalla nascita, e solo pochi, fatta eccezione per la classe dominante ricca, supera queste classificazioni, che di norma sono evidenti già dal nome e dal luogo di nascita. Così come nei Balcani, l’identità religiosa spesso è un’identità culturale e conduce a divisioni simili a quelle etniche, anche all’interno di gruppi che parlano la stessa lingua. Poco si sa della storia della fede alawita, persino all’interno della stessa comunità alawita, perché il suo credo e le sue pratiche sono note solo ai pochi iniziati.
Assomiglia assai poco alle dottrine più comuni dell’Islam e prevede la fede nella trasmigrazione dell’anima, la reincarnazione, la divinità di Ali ibn Abi Talib, quarto Califfo e cugino del profeta Maometto, e una santa trinità composta da Alì, Maometto e uno dei compagni del profeta, Salman al Farisi. Un fattore comune dell’identità alawita è il timore dell’egemonia sunnita, dovuto a un passato di persecuzioni finite solo con la caduta dell’impero ottomano. A partire dagli anni Sessanta, il regime siriano ha incoraggiato soprattutto i contadini alawiti a migrare dalle regioni di montagna verso le pianure, concedendo loro il possesso delle terre che erano appartenute a un’élite prevalentemente sunnita. Ma a cominciare dall’inizio delle rivolte di quest’anno, alcuni hanno rimandato la propria famiglia nelle zone rurali in cerca di sicurezza. Yahya al Ahmad, un medico alawita di Homs mi spiega che la sua comunità è guardata con disapprovazione, perché si è spostata e ha trovato lavoro nell’apparato statale e nelle imprese.
“I sunniti dicono che abbiamo rubato i loro posti di lavoro e che dobbiamo tornarcene nelle campagne”, mi spiega. Un amico alawita mi dice di come si è sentito offeso nel vedere in tv i dimostranti sunniti che a Latakia gridavano che avrebbero rimandato il presidente Bashar “alla fattoria”. Per lui significa che i sunniti vogliono che tutti gli alawiti tornino ai propri villaggi. “La condizione degli alawiti non è mai stata invidiabile” ha scritto la storica Hanna Batatu. “Sotto gli ottomani hanno subito abusi, oltraggi e varie forme di oppressione amministrativa; talvolta, donne e bambini sono stati fatti prigionieri e venduti”. Il mandato francese che sostituì l’impero ottomano diede alle minoranze maggiore autonomia, indebolendo la preesistente élite sunnita, mentre gli alawiti chiedevano il riconoscimento da parte francese di uno stato autonomo. Le minoranze, in particolare gli alawiti, identificarono allora nel partito baathista al potere e nella sua ideologia pan-arabica uno strumento per superare gli stretti confini delle diverse identità settarie; al contempo, l’occupazione nel settore pubblico e nell’esercito diede modo a molti di migliorare la propria condizione. Nel 1955 la maggioranza dei sottufficiali era alawita, e in breve anche il comitato militare del partito si trovò sotto controllo alawita. Erano gli alawiti a decidere chi entrava nelle accademie militari, scegliendo tra le persone che provenivano da strati sociali fidati, spesso alawiti o sunniti delle zone rurali, e incoraggiando gli alleati più leali a entrare nelle unità pretoriane. Nel 1970 salì al potere Hafez al Assad, ministro alawita della Difesa ed ex funzionario militare. Concentrò il potere nelle mani di parenti e amici stretti, compresi molti alawiti provenienti dal governatorato di Latakia, sua regione natale, pur promuovendo anche alcuni colleghi dell’accademia militare sunnita. Con il nepotismo di Assad, la setta si trovò presente in modo sproporzionato nelle istituzioni. Lo stato, detto persino “assadismo”, subentrò alla religione come fulcro dell’identità settaria.
Gli alawiti sono sempre stati rifiutati dalla corrente predominante dell’islam. Per essere accettato come guida, Assad dovette convincere i sunniti e gli stessi alawiti che questi ultimi rientravano in quella corrente predominante. Sebbene gli alawiti abbiano una forte identità comune e continuino a visitare i mazar (i santuari), e tendenzialmente prevedano la partecipazione di uno sceicco a funerali e matrimoni, non sanno esattamente cosa ciò significhi. Joshua Landis, direttore del centro per gli studi sul medio oriente della University of Oklahoma, ha rivelato che gli alawiti non ricevono un’istruzione in merito alla propria religione, tanto che i manuali in uso nelle scuole siriane non fanno nemmeno uso della parola “alawita”. “L’istruzione islamica nelle scuole siriane è tradizionale, rigida e sunnita – ha scritto – Il ministero dell’Istruzione non tenta in nessun modo di inculcare nozioni di tolleranza e rispetto per le tradizioni religiose diverse da quelle dell’islam sunnita”. Il cristianesimo, nota Landis, ha costituito un’eccezione.
Il regime ha negato agli alawiti qualsiasi spazio pubblico per praticare la propria fede; non ha riconosciuto un consiglio alawita che avrebbe potuto stilare norme religiose e che sarebbe stato uno strumento utile a spiegare la religione alawita agli altri, per ridurre i sospetti su quella che molti siriani percepiscono come una fede misteriosa. La perdita del ruolo tradizionale dei capi di comunità ha frammentato la setta, impedendo ai suoi adepti di definire posizioni unitarie e di instaurare un dialogo in quanto comunità con le altre sette siriane, e rafforzando in questo modo le paure e la diffidenza settarie. E’ difficile dire quali fattori definiscano l’appartenenza alla setta, se non il fatto di essere nati da genitori alawiti. Poiché la loro identità si fonda sul ruolo guida di Assad, hanno adottato un motto come “Assad per sempre”, che impedisce loro di distaccarsi dal regime e di immaginare una Siria senza Assad. Gli alawiti che osano opporsi al regime credono che incorreranno in una speciale punizione a causa del loro “tradimento”.
La rivolta dei Fratelli musulmani iniziata nel 1976, che ha portato alla guerra civile tra il ’79 e l’82, ha condizionato il modo in cui gli alawiti leggono le rivolte attuali. All’epoca, i Fratelli musulmani avevano tentato di riunire i sunniti in una lotta settaria. Uccisero molti intellettuali, giudici e medici alawiti. Il massacro dei candidati ufficiali nell’accademia militare di Aleppo nel 1979, insieme all’assassinio dello sceicco alawita Yusuf Sarem, sono ancora vivi nella memoria della comunità. La maggioranza sunnita, dal canto suo, ricorda la brutalità con cui è stata schiacciata la rivolta dei Fratelli musulmani: l’organizzazione è stata annientata in Siria e ancora oggi è largamente assente nelle attuali rivolte, anche se la maggior parte dei dimostranti odierni è costituita da sunniti conservatori. Quella di quest’anno è una rivolta popolare, particolarmente sentita tra i poveri, a differenza della sommossa dei Fratelli musulmani (che, per quanto abbiano perso molta credibilità dopo la repressione, continuano a essere influenti nell’opposizione che fomenta le paure alawite).
Nel 1981, lo storico Hanna Batatu scrisse: “A favorire la coesione nella congiuntura attuale è il forte timore, diffuso tra gli alawiti di tutti gli strati sociali, che su di loro potrebbero ripercuotersi conseguenze terribili se il regime esistente dovesse essere destituito dal potere o collassare”. Gli alawiti ritengono di essere più “liberali” e laici dei sunniti: consumano alcol, vivono più liberamente i contatti tra uomini e donne, l’abbigliamento e il comportamento femminili sono più occidentali. Si sentono offesi dalle voci diffuse dalla maggioranza sunnita, secondo le quali le loro pratiche religiose prevedono orge; così come li offende sentir dire che la Siria è un regime alawita e che per questo sarebbero privilegiati. In realtà, gli alawiti appoggiano la famiglia Assad in sé più che il regime, tant’è vero che criticano prontamente la corruzione dell’amministrazione statale.
Non potendo mobilitarsi come alawiti, si rivolgono alla famiglia al potere per seguirne la guida. Il regime però agisce nel proprio interesse, non in quello degli alawiti. Il blogger alawita Karfan ha scritto: “Cancellando tutte le forme di identità religiosa e impedendo agli alawiti di costruirsene un’altra altrove, gli alawiti sono stati semplicemente trasformati in una sorta di tribù, unita intorno a un unico obiettivo: mantenere il re al potere. Intanto tutti continuano a parlare di un ‘regime alawita’ e ad addossare tutte le sue responsabilità agli alawiti. Saremo destinati a portare il fardello delle colpe delle stesse persone che hanno distrutto la nostra religione”. Quando Hafez al Assad prese il potere, favorì la secolarizzazione del Partito baathista, fiaccandolo per trasformarlo in un partito pro Assad.
La solidarietà alawita e il sostegno di alcune ricche famiglie sunnite consolidarono il regime. All’indebolimento del Partito baathista seguì anche quello dei sindacati e delle organizzazioni imprenditoriali; il vuoto sociale fu riempito dai sunniti conservatori, le cui organizzazioni di beneficenza poterono svolgere un ruolo di crescente importanza. Anche i membri del clero sunnita ottennero qualche libertà (una decisione che, se in un primo momento aumentò i sostenitori del regime, ora alimenta le divisioni tra i sunniti e i servizi di sicurezza dominati dagli alawiti). La debolezza del partito baathista significa anche che il regime non può mobilitare gli abitanti intorno a nulla di diverso da Bashar al Assad, che ha preso il potere dopo la morte del padre, nel 2000. Tant’è vero che di questi tempi è facile capire se ci si trova in una zona alawita: sono luoghi in cui tutto lo spazio disponibile è tappezzato di immagini del presidente Bashar, del fratello Maher o del padre Hafez (mentre gli uomini sfrecciano avanti e indietro sulle moto, tutti con indosso le magliette di Bashar). Parlare con accento alawita può essere d’aiuto a superare i posti di blocco militari.
Il tassista che mi ha portato nel quartiere di Duma, una roccaforte dell’opposizione a Damasco, è un alawita di Latakia. Ha parlato con gli ufficiali al posto di blocco con l’accento alawita, sostenendo che fossi libanese; ci hanno fatto passare senza nemmeno guardare la mia carta d’identità. Di ritorno nel governatorato di Hama, invece, Abu Laith si preoccupa dei posti di controllo presidiati da uomini dell’opposizione. E’ pienamente consapevole dell’identità culturale di ognuno dei villaggi circostanti, e abbandona la strada principale per evitare l’irrequieta città sunnita di Hama. Passiamo dal povero villaggio alawita di Alamein, nei pressi di Tumin. “Tumin è un villaggio cristiano – mi spiega – Dei cristiani qui ci si può fidare. Tumin è ricca e la gente è molto buona”. Facciamo salire un autostoppista diretto a Rabia; è un soldato di ritorno dal lavoro. Sembra rilassarsi quando vede chi guida. Aveva paura di stare sulla strada, racconta, “paura dei terroristi”. Veste in abiti civili. “Perché mi farebbero fuori”, spiega. E’ ostile a tutti i sunniti, che ritiene responsabili della brutalità con cui sono stati uccisi i soldati. Abu Laith è a disagio: “Non sono tutti così”, ammonisce. I pullman pubblici ora attraversano Rabia per evitare i villaggi sunniti “meno sicuri”.
Grandi barriere di pietra bloccano l’ingresso alla città. Tre uomini armati di fucile e con le cinture foderate di munizioni ci fanno cenno di rallentare, fino a quando non riconoscono Abu Laith. Passiamo di fianco ad altri uomini che pattugliano la zona in moto con il fucile a tracolla e ci dirigiamo verso il cimitero cittadino. Forse un migliaio di persone partecipa al funerale di un soldato, Naeem Tarif, ucciso ad Hama. Molti dei partecipanti hanno con sé un’arma; alcuni bambini sventolano immagini del presidente. La strada che lascia la città in direzione ovest è anch’essa bloccata da massi di pietra e da un posto di blocco. Diversi uomini, tutti armati, se ne stanno seduti in un piccolo capanno di legno, che su una parete reca la scritta “Dio, Siria e Bashar, e nient’altro”. Molte strade di Rabia non sono asfaltate. Nel centro città troviamo una statua color rame lucido dell’ex presidente Hafez al Assad che con una mano brandisce una spada e nell’altra tiene un ramoscello d’olivo. Gli abitanti l’hanno fatta innalzare a proprie spese un mese prima, come mi racconta Abu Laith. “A Rabia ci sono solo scuole, niente parchi giochi o altro”, si lamenta Abu Laith. Mi porta alla casa del padre, dove il figlio di sei anni mi saluta chiedendomi immediatamente: “Stai coi nostri o coi loro?”.
“E tu con chi stai?”, gli chiede il padre. “Io sto con la Siria”. Gli uomini della sicurezza come Abu Laith sono da sempre più occupati degli altri, e raramente riescono a fare visita alle famiglie. Ha quattro fratelli nelle forze di sicurezza e uno disoccupato. “La maggior parte degli uomini qui fa parte delle forze di sicurezza – mi spiega – ma abbiamo pochissimi ufficiali. Non ci permettono di diventarlo”. Quanto a quei giorni d’agosto, Rabia ha pagato con dieci “martiri” delle forze di sicurezza e altri abitanti, forse 15, sono stati feriti negli scontri con i combattenti dell’opposizione armata. Altri due ufficiali delle forze di sicurezza di Rabia, due sergenti, sono stati uccisi alcuni giorni più tardi. Facciamo visita alla famiglia di Naeem Tarif, l’uomo di cui abbiamo visto il funerale poco prima, in una tenda fuori casa. Tarif aveva 40 anni, era un sergente con vent’anni di carriera.
E’ stato ucciso ad Hama una settimana fa, ma il suo corpo è stato trovato solo il giorno del mio arrivo. E’ stato decapitato, e il suo corpo bruciato, mi racconta il fratello. I video che ritraggono uomini armati mentre si liberano del corpo, trovati su alcuni cellulari sequestrati, sono stati trasmessi in tv e su Internet. “Abbiamo paura”, mi dice un nipote. “Tutto il villaggio è pronto a sacrificarsi per la nazione”, proclama un altro. Sono spaventati dai gruppi armati. “Già in passato sono stati qui, come cellule dormienti”, dice un parente. Sono tutti furenti con i mezzi di comunicazione internazionali perché non raccontano quanto sta succedendo loro. Incontro la famiglia di Issa Bakir, che da undici anni è sergente di polizia ad Aleppo.
Dopo aver fatto visita alla sua famiglia a Rabia, il 5 luglio, Issa stava tornando ad Aleppo, passando per Hama. E’ stato fermato a un posto di blocco. E’ stato colpito alla testa con un bastone, poi gli hanno tagliato la gola. “L’hanno fermato, hanno bruciato la macchina, l’hanno sgozzato e l’abbiamo trovato vicino alla moschea”, mi racconta il padre. Il fratello di Bakir lavorava con lui nella polizia di Aleppo, ma ora per andare al lavoro passa per Latakia, per evitare Hama. “L’hanno ucciso perché era alawita – continua il padre – I miei figli e io siamo un sacrificio offerto per la patria. Non siamo settari. Prima i nostri rapporti (con i sunniti) erano normali”. E’ lo stato che deve occuparsi di rendere giustizia al figlio, mi dice: “Non vogliamo vendetta. Perché non ci deve essere una logica settaria in Siria”. Non lontano vive Muhamad Khazem, un sergente della sicurezza di stato; ha 46 anni, è grande e grosso e riposa a letto, ferito. Mi mostra il foro d’ingresso di una pallottola, appena sotto la gola, e il punto da cui è uscita, sulla schiena, giusto una settimana prima. Lui e altre decine di uomini della sicurezza erano in missione per rimuovere i blocchi stradali dell’opposizione, quando è stato colpito. “E’ al Qaeda – sostiene il fratello – Ho combattuto nella guerra del ’73. Fosse stato Israele a ferire un siriano, l’avrebbero portato in ospedale, e se fosse morto l’avrebbero sepolto dignitosamente.
Gli israeliani hanno più compassione di questi altri, che sono selvaggi”. Rabia confina con due villaggi sunniti: Tizeen e Kifr Tun. L’elettricità viene da Tizeen e gli abitanti sostengono che i sunniti della città vicina di recente abbiano tagliato la linea elettrica. Li accusano anche di aver ucciso due uomini alawiti sei giorni prima. Gli alawiti di Rabia dicono che i villaggi sunniti di Mitneen, Arzi e Kifr Tun hanno espulso le famiglie alawite, e Rabia ha accolto gli sfollati. Il contadino Hamid Diab e i suoi otto figli sono stati tra le trenta famiglie espulse da Kifr Tun, dove vivevano dal ’59. Racconta che gli alawiti in città sono stati minacciati. Li hanno avvisati: “Vi sgozzeremo”. Una settimana prima, di mattina, erano stati attaccati da uomini armati. “Hanno bruciato pneumatici e hanno sparato per spaventarci”, racconta. “Alcuni sunniti sono brave persone e non l’hanno accettato: è stato un sunnita ad aiutarci a uscire”. Sostiene che uno dei membri del commando era un beduino che si fa chiamare Dahib al Thawra, “macellaio della rivoluzione”. Dice che gli abitanti di Rabia li hanno accolti bene, ma che hanno lasciato tutto a Kifr Tun. Ora non hanno accesso alle loro fattorie o ai loro orti. Non c’erano mai stati problemi prima della rivolta, sostiene, e i suoi figli erano andati a scuola con i bambini sunniti. Sospetta che prima l’odio fosse nascosto.
“E’ stata la gente del villaggio ad attaccarci. Erano usciti allo scoperto durante il Ramadan, quando avevano inviato il loro saluto a Bandar e Arur”, racconta, riferendosi al potente principe saudita Bandar bin Sultan e allo sceicco agitatore siriano Adnan al Arur. “Adorano tutti Arur da quelle parti, quando parlava alzavano il volume, così potevamo sentirlo da casa nostra”. Hamid mi dice che lo stesso giorno gli abitanti di Kifr Tun hanno assalito un alawita del villaggio di Addas mentre stava attraversando la città in moto, cospargendolo di benzina. Ha preso fuoco, ma altri abitanti l’hanno salvato. Non c’erano forze di sicurezza nel paese, mi dice. Solo una stazione di polizia nel villaggio alawita di Jarjara, che aveva competenza sui tanti villaggi della zona. “Non avevamo armi, altrimenti avremmo risposto al fuoco”, dice Hamid. “Le forze di sicurezza hanno bisogno dei carri armati per entrare nei villaggi. L’opposizione ha bloccato le strade. L’esercito deve entrare nei villaggi, ma è troppo occupato ad Hama. Perché lo stato temporeggia?”. Il padre di Abu Laith, Abu Iyad, soldato in pensione, è d’accordo: “Solo l’esercito può risolvere la situazione. Se rispondiamo, sarà una risposta settaria, gli altri villaggi si uniranno a loro e saranno più di noi”.
Per i vicini sunniti, Rabia è altrettanto preoccupante, perché rappresenta i fanatici alawiti, sostenitori del regime. Firas, uno degli organizzatori dell’opposizione nella città di Rasta, mi racconta del cugino Muhamad Hussein Shahul, un tassista 35enne che non partecipa all’attività dell’opposizione. A luglio, Shahul ha portato quattro operai che tornavano a casa, a Tizeen, dal Libano. La strada che attraversava la città di Hama era chiusa perché erano in corso degli scontri, per cui sono passati per la città cristiana di Kfarbo e poi da Rabia, dove, dice Firas “una banda di alawiti fedeli ad Assad” ha teso loro un’imboscata. Un passeggero è sfuggito, ma gli altri quattro uomini sono stati torturati e giustiziati. I cadaveri sono stati lasciati nella macchina, abbandonata vicino alla città di Masyaf prima di dare la notizia alle famiglie. “Non abbiamo potuto andarci noi”, continua suo cugino, “perché ci avrebbero uccisi”. I funzionari dell’esercito di Rastan hanno coordinato l’intervento con i colleghi di Masyaf, che hanno portato il corpo di Muhamad al confine con un villaggio alawita, dove la famiglia ha potuto recuperarlo per dargli sepoltura.
Enigma alawita
Il particolare magari è sconosciuto ai più, ma il regime siriano che alcuni, probabilmente non a torto, ritengono faccia parte a pieno titolo del cosiddetto “Asse del Male”, del tutto islamico islamico non è, quanto meno non in senso ortodosso. A prescindere dal fatto che Damasco è da decenni retta da una élite baathista almeno formalmente laica, il dato sorprendente è come di tale élite facciano parte molti alawiti, in un numero che proporzionalmente è davvero assai alto.
Ma chi sono gli alawiti (o alauiti che dir si voglia)? Storicamente, essi rappresentano un gruppo religioso mediorientale (null’altro che una setta per i mussulmani sunniti) diffuso principalmente in Siria. Bashar al-Assad, l’attuale presidente siriano, è un alawita, come, ovviamente, il padre Hafez al-Assad, nonché molti membri della nomenklatura siriana, una vera e propria lobby che da decenni ormai detiene il potere nel Paese mediorientale.
A lungo gli alawiti sono stati chiamati nusairi, namiriya o ansariyya, ma col il passare del tempo, nusairi è divenuto un termine spregiativo ed ormai essi preferiscono essere chiamati alawi (termine ufficialmente riconosciuto dai francesi quando nel 1920 occuparono la regione), soprattutto per sottolineare il legame con Ali, il cugino-cognato del Profeta Mohammad la cui figura è alla base dello scisma sciita.
L’origine della setta è da sempre oggetto di aspre divergenze d’opinione fra gli esperti. Secondo talune fonti, essi erano in origine dei nusayri, un gruppo scismatico degli sciiti duodecimani (IX secolo), ma gli alawiti fanno risalire le loro origini all’undicesimo imam sciita Hasan al-Askari (m. 873) ed al suo braccio destro Ibn Nusayr (m. 868). In realtà, pare che la setta sia stata organizzata in un secondo momento da un seguace di Ibn Nusayr, tale al-Khasibi, morto ad Aleppo intorno al 969. Un nipote di al-Khasibi, al-Tabarani, si sarebbe trasferito a Latakia, sulla costa siriana, e lì avrebbe gettato le basi teoretiche della fede nusayri e convertito la popolazione locale.
Secondo la vulgata più attendibile, quindi, gli alawiti vennero fondati nel X secolo, sotto gli hamdanidi di Aleppo, per venire poi perseguitati al crollo della dinastia, nel 1004. Durante la prima crociata, le truppe cristiane inizialmente li attaccarono, ma poi strinsero un’alleanza strategica in funzione anti-ismailita. Iniziò così una convulsa fase storica che portò gli alawiti ad essere sconfitti dagli ismailiti e dai curdi nel 1120 e, tre anni dopo, a vincere questi ultimi. Molto più tardi, nel 1297, si assistette ad un intelligente tentativo di fusione fra ismailiti e alawiti, tentativo che purtroppo non ebbe esito felice, pur essendo oltremodo evidenti le contiguità ideologiche fra i due gruppi.
Ma è sotto i mamelucchi che inizia una durissima repressione, che dal 1260 sostanzialmente giunge fino all’epoca moderna. Secondo alcune fonti, quando la Sublime Porta riuscì ad avere il completo controllo della Siria, nel 1516, oltre novantamila alawiti trovarono la morte. L’Impero ottomano perseguì una feroce politica discriminatoria contro gli alawiti e le loro terre furono confiscate e date in premio a dei coloni turchi, alcuni dei quali finirono comunque per convertirsi alla fede alawita.
Dopo il crollo dell’Impero successivo al primo conflitto mondiale, Siria e Libano vennero poste sotto il mandato internazionale di Parigi, che concesse ampia autonomia agli alawiti ed alle altre minoranze. La nuova situazione innescò un profondo desiderio di indipendenza nei capi tribù alawiti, che nel 1925 diedero vita al territorio degli “Alaouites”, cui nel 1930 fece seguito il Governo di Latakia, esperimento che ebbe fine ai primi del 1937.
Nel 1939 Parigi decise di cedere ai turchi una porzione della Siria nord-occidentale, scatenando la reazione degli alawiti. Un giovane capo tribale, Zaki al-Arsuzi, si pose alla guida del movimento di resistenza, acquisendo una certa notorietà. In seguito, insieme a Michel Aflaq, sarebbe divenuto uno dei fondatori del partito baathista.
A secondo conflitto mondiale finito, la Siria acquisì la completa indipendenza (16 aprile 1946) e le province alawite vennero inglobate nella nuova entità statale. Furono anni assai caotici per i siriani tutti. La guerra arabo-israeliana del 1948 per il controllo della Palestina produsse a Damasco tutta una serie di sanguinosi colpi di Stato militari. A calma riottenuta, si pensò di procedere sulla strada dell’audace sperimentazione geopolitica ideata da Nasser: la fusione di Egitto e Siria nella Repubblica Araba Unita (1958). L’unione resse appena tre anni e nel 1961, approfittando della nuova fase di confusione istituzionale, il partito Baath prese il potere grazie ad un comitato militare che vedeva fra i suoi membri diversi ufficiali alawiti, tra i quali il colonnello dell’Aeronautica Hafez al-Assad, il futuro “leone di Damasco”. Nel 1970 al-Assad prese il potere e l’anno successivo si proclamò presidente. Da allora gli alawiti dominano la Siria, dando vita al paradosso di un Paese sunnita guidato da una setta sciita.
A seguito delle loro fortune politiche, migliorò notevolmente anche l’immagine complessiva degli alawiti nel mondo islamico. Nel 1974, l’imam Musa al-Sadr, capo spirituale degli sciiti duodecimani libanesi, concedendo un riconoscimento atteso da circa un millennio, li definì ufficialmente veri mussulmani. Fu un passo di grande rilevanza per gli alawiti, considerato come fino a quel momento le autorità religiose islamiche, sia sciite che sunnite, si erano sempre rifiutate di considerarli dei correligionari.
Ad onor del vero, a tutt’oggi la gran parte del mondo sunnita e sciita rifiuta di riconoscere gli alawiti quali confratelli e ciò rende ancor più singolare la situazione siriana. La famiglia Assad è stata molto abile in questi ormai quasi quarant’anni di ininterrotto potere a promuovere la tolleranza religiosa in Siria, ma un regime change a Damasco potrebbe anche produrre un crollo verticale della condizione degli alawiti, per i quali non sarebbe da escludere, una volta caduto al-Assad, un nuovo periodo di persecuzioni.
Com’è facile immaginare, la maggioranza dei sunniti siriani faticò non poco ad accettare l’idea degli alawiti al potere. Il gruppo terroristico dei Fratelli Musulmani cercò quindi di porre rimedio all’inedita situazione con un clamoroso attentato ad Hafez al-Assad il 25 giungo 1980. Il pretesto fu l’eliminazione dalla Costituzione siriana dell’articolo che definiva l’Islam religione di Stato (per tacere del fatto che al-Assad non era considerato un mussulmano). L’attentato fallì ed il Leone di Damasco rispose con un vero e proprio massacro nella roccaforte sunnita di Hama, con oltre 10.000 persone uccise, molte delle quali simpatizzanti dei Fratelli Mussulmani. Dopo questi terribili eventi, i sunniti giocoforza finirono con l’accettare lo status quo.
Nel corso degli anni, la famiglia al-Assad si è molto impegnata per garantire alle varie tribù una giusta rappresentanza ai vertici delle Forze Armate, nello stesso modo in cui ha sempre cercato di ripartire equamente gli incarichi governativi fra i numerosi gruppi etnici e religiosi che compongono la variegata galassia siriana. Negli ultimi mesi, però, per la prima volta dopo decenni di potere, gli alawiti hanno cominciato a temere seriamente il crollo del regime, crollo che li trascinerebbe tutti nella polvere in men che non si dica.
Ma, a ben vedere, questo periodo di ribalta e dominio non rappresenta poi molto rispetto al millennio di sanguinose lotte per la propria identità vissuto dagli alawiti. Con un pizzico di cinismo si può affermare come, una volta disarcionato il giovane presidente, essi semplicemente torneranno ad essere quello che sono sempre stati, una goccia eretica nel mare della Siria sunnita.
———————————————————Cenni demografici
In Siria, gli alawiti vivono oggi nelle montagne e lungo la costa del Mar Mediterraneo, concentrati prevalentemente nelle città di Latakia e Tartus, nonché nelle piane attorno ad Hama e Homs. In ogni caso, coerentemente con il loro status di élite di potere, sono diffusi anche in tutte le altre principali città del Paese, soprattutto nella capitale Damasco. Le stime demografiche sul loro numero variano tra 1.5 e 1.8 milioni, ossia circa il 12% dell’intera popolazione siriana. Inoltre, ci sono circa 100.000 alawiti che vivono il Libano ed altri che vivono nelle regioni di Hatay, Adana e Mersin, nella Turchia meridionale.
In Siria, gli alawiti vivono oggi nelle montagne e lungo la costa del Mar Mediterraneo, concentrati prevalentemente nelle città di Latakia e Tartus, nonché nelle piane attorno ad Hama e Homs. In ogni caso, coerentemente con il loro status di élite di potere, sono diffusi anche in tutte le altre principali città del Paese, soprattutto nella capitale Damasco. Le stime demografiche sul loro numero variano tra 1.5 e 1.8 milioni, ossia circa il 12% dell’intera popolazione siriana. Inoltre, ci sono circa 100.000 alawiti che vivono il Libano ed altri che vivono nelle regioni di Hatay, Adana e Mersin, nella Turchia meridionale.
La dottrina
Tradizionalmente gli alawiti si dividono in cinque diramazioni: ghaybiyya, haydariyya, murshidi (da Sulayman al-Murshid), shamsiyya (setta del Sole) e qamariyya (setta della Luna). Questi rivoli, per così dire, seguono una suddivisione prevalentemente tribale, ancora molto forte in Siria.
Tradizionalmente gli alawiti si dividono in cinque diramazioni: ghaybiyya, haydariyya, murshidi (da Sulayman al-Murshid), shamsiyya (setta del Sole) e qamariyya (setta della Luna). Questi rivoli, per così dire, seguono una suddivisione prevalentemente tribale, ancora molto forte in Siria.
La religione alawita ha molte similitudini con l’Ismailismo. Come gli sciiti ismailiti, gli alawiti credono in un sistema di incarnazione divina, così come ad una lettura prevalentemente esoterica del Corano. Contrariamente agli ismailiti, però, gli alawiti considerano Ali come una delle incarnazioni della triade divina: Ali è il Significato, Muhammad, che Ali creò con la sua luce, è il Nome e Salman al-Farisi il Cancello.
La religione alawita è ammantata nel più assoluto riserbo e gli alawiti oggi non accettano convertiti, né consentono la pubblicazione dei loro testi sacri. Risultato di tale scelta di segretezza è che la gran parte degli alawiti stessi conosce ben poco della propria dottrina, custodita gelosamente da una ristretta cerchia di iniziati di sesso maschile.
Del resto, la teologia alawita sembra basarsi prevalentemente sullo gnosticismo e sul tesi assai vicine al neoplatonismo. Secondo la cosmogonia alawita, in principio tutte le persone erano delle stelle in un mondo di luce, ma a causa di un atto di disobbedienza precipitarono dal firmamento. La visione gnostica si evidenzia soprattutto nella teoria del mondo materiale visto quale luogo impuro costellato di mortali pericoli.
Considerata la natura altamente sincretistica della dottrina alawita (secondo diverse fonti, i loro riti comprenderebbero addirittura frammenti millenari dei rituali sacrificali fenici), non manca chi, fra gli studiosi, sostiene una correlazione fra i cristiani e gli alawiti. Del resto, questi ultimi adorano una loro Trinità, utilizzano il vino durante alcune celebrazioni liturgiche e riconoscono il Natale. I punti di distanza con la vulgata mussulmana sono tali che agli inizi degli anni Venti i francesi cercarono addirittura di spingere i principali shaykh alauiti a dichiarare la propria religione distinta dall’Islam, anzi, proprio non-musulmana. Le autorità religiose alawiti rifiutarono, preferendo mantenere la propria identità storica. Cionondimeno, negli ultimi decenni gli alawiti hanno pagato un prezzo assai alto per il successo politico, di fatto negando la loro distintiva tradizione religiosa e quasi finendo per convertirsi all’Islam sunnita.
Apparso su il Domenicale di sabato 15 aprile 2006 con il medesimo titolo
siria Cristiani
Come un topolino tra due elefanti in lotta – così come mostra una vignetta apparsa sulla stampa araba – la maggioranza dei cristiani di Siria teme di diventare la vittima sacrificale di una “imminente guerra civile” tra gli alawiti, branca minoritaria dello sciismo a cui appartengono i clan al potere a Damasco, e i sunniti, maggioranza della popolazione in rivolta da oltre sei mesi.
Sin dallo scoppio delle prime proteste, i vertici delle chiese cattoliche e ortodosse di Siria hanno a più riprese espresso pubblicamente il loro sostegno alla politica del presidente Bashar al Assad, ripetendo il mantra della propaganda ufficiale: “riforme e dialogo”. Secondo le stime dell’Onu, aggiornate ad agosto, sono circa 2.700 i siriani uccisi dalla repressione governativa, portata avanti dai servizi di sicurezza, dalle milizie lealiste (shabbiha) e da alcuni reparti dell’esercito: tutte forze saldamente controllate da membri degli Assad o di altre famiglie alawite.
I cristiani in Siria rappresentano poco meno del 10% della popolazione, quanto gli alawiti (circa l’11), mentre i tre quarti dei siriani sono sunniti. Nel 1964 e, poi, nel triennio 1979-82, il regime baathista fu scosso da proteste, anche armate, portate avanti dai Fratelli musulmani, movimento islamico sunnita illegale dal 1980.
Gli storici ricordano che il presunto estremismo insito nei sunniti è però in contrasto con secoli di convivenza pacifica tra loro e le altre comunità confessionali. Per la prima volta nella Siria indipendente, il ministro della Difesa è un cristiano: l’estate scorsa il generale Dawud Rajha aveva preso il posto dell’alawita Ali Habib, ufficialmente malato, ma secondo molti epurato (forse ucciso) perché si era opposto all’impiego dei soldati nell’uccisione di civili.
“La nomina di Rajha a capo formale della repressione dimostra che il regime intende farsi scudo dei cristiani”, ha detto Raja A., pseudonimo di uno dei coordinatori sunniti della mobilitazione di Homs, terza città siriana che finora ha pagato il tributo di sangue più alto alla rivolta (circa 850 uccisi).
Proprio Homs – secondo Raja – è un microcosmo di tutta la Siria: “una maggioranza sunnita che circonda un quartiere cristiano e due zone alawite”. Secondo l’attivista intervistato a Beirut, i cristiani sono paralizzati da due paure: quella presente di esser attaccati dagli shabbiha se il regime dovesse dubitare della loro realtà, e quella di esser vittima di un futuro post-Assad in salsa fondamentalista.
Timore espresso martedì dal cardinale libanese maronita Bishara al Rai, patriarca della maggiore chiesa cattolica d’Oriente, che già nelle settimane precedenti aveva definito Assad “un riformatore” a cui concedere altro tempo, un “poverino” a cui “non si possono chiedere miracoli”.”Non vogliamo che gli eventi in corso in Siria portino a una guerra civile sunno-alawita, in cui i cristiani sarebbero inevitabilmente vittime”, aveva detto al Rai.
Michel Kilo, decano degli oppositori siriani in patria, più volte in carcere per le sue opinioni, è cristiano. Come Fayez Sara, un altro noto dissidente. “Ognuno ha diritto ad avere paura, ma perché – si interroga retoricamente Kilo parlando al quotidiano libanese an Nahar – andare persino contro i propri interessi, opporsi alla libertà, alla cittadinanza, al rispetto dei diritti umani? I cristiani vanno comunque rassicurati: l’estremismo non è nel sangue dei siriani”.
Lo stesso Kilo sabato scorso era asceso all’antico monastero di Mar Musa, nel deserto siriano tra Damasco e Homs, vent’anni fa riportato alla vita dal gesuita italiano Padre Paolo Dall’Oglio, che ancora oggi guida la comunità monastica. Kilo si era unito al digiuno di Dall’Oglio, di altri monaci e di alcuni fedeli musulmani anch’essi saliti a Mar Musa nell’ambito di un periodo di jihad (impegno) spirituale per la “riconciliazione in Siria”. (Scritto per Ansa il 28 settembre 2011).
Sin dallo scoppio delle prime proteste, i vertici delle chiese cattoliche e ortodosse di Siria hanno a più riprese espresso pubblicamente il loro sostegno alla politica del presidente Bashar al Assad, ripetendo il mantra della propaganda ufficiale: “riforme e dialogo”. Secondo le stime dell’Onu, aggiornate ad agosto, sono circa 2.700 i siriani uccisi dalla repressione governativa, portata avanti dai servizi di sicurezza, dalle milizie lealiste (shabbiha) e da alcuni reparti dell’esercito: tutte forze saldamente controllate da membri degli Assad o di altre famiglie alawite.
I cristiani in Siria rappresentano poco meno del 10% della popolazione, quanto gli alawiti (circa l’11), mentre i tre quarti dei siriani sono sunniti. Nel 1964 e, poi, nel triennio 1979-82, il regime baathista fu scosso da proteste, anche armate, portate avanti dai Fratelli musulmani, movimento islamico sunnita illegale dal 1980.
Gli storici ricordano che il presunto estremismo insito nei sunniti è però in contrasto con secoli di convivenza pacifica tra loro e le altre comunità confessionali. Per la prima volta nella Siria indipendente, il ministro della Difesa è un cristiano: l’estate scorsa il generale Dawud Rajha aveva preso il posto dell’alawita Ali Habib, ufficialmente malato, ma secondo molti epurato (forse ucciso) perché si era opposto all’impiego dei soldati nell’uccisione di civili.
“La nomina di Rajha a capo formale della repressione dimostra che il regime intende farsi scudo dei cristiani”, ha detto Raja A., pseudonimo di uno dei coordinatori sunniti della mobilitazione di Homs, terza città siriana che finora ha pagato il tributo di sangue più alto alla rivolta (circa 850 uccisi).
Proprio Homs – secondo Raja – è un microcosmo di tutta la Siria: “una maggioranza sunnita che circonda un quartiere cristiano e due zone alawite”. Secondo l’attivista intervistato a Beirut, i cristiani sono paralizzati da due paure: quella presente di esser attaccati dagli shabbiha se il regime dovesse dubitare della loro realtà, e quella di esser vittima di un futuro post-Assad in salsa fondamentalista.
Timore espresso martedì dal cardinale libanese maronita Bishara al Rai, patriarca della maggiore chiesa cattolica d’Oriente, che già nelle settimane precedenti aveva definito Assad “un riformatore” a cui concedere altro tempo, un “poverino” a cui “non si possono chiedere miracoli”.”Non vogliamo che gli eventi in corso in Siria portino a una guerra civile sunno-alawita, in cui i cristiani sarebbero inevitabilmente vittime”, aveva detto al Rai.
Michel Kilo, decano degli oppositori siriani in patria, più volte in carcere per le sue opinioni, è cristiano. Come Fayez Sara, un altro noto dissidente. “Ognuno ha diritto ad avere paura, ma perché – si interroga retoricamente Kilo parlando al quotidiano libanese an Nahar – andare persino contro i propri interessi, opporsi alla libertà, alla cittadinanza, al rispetto dei diritti umani? I cristiani vanno comunque rassicurati: l’estremismo non è nel sangue dei siriani”.
Lo stesso Kilo sabato scorso era asceso all’antico monastero di Mar Musa, nel deserto siriano tra Damasco e Homs, vent’anni fa riportato alla vita dal gesuita italiano Padre Paolo Dall’Oglio, che ancora oggi guida la comunità monastica. Kilo si era unito al digiuno di Dall’Oglio, di altri monaci e di alcuni fedeli musulmani anch’essi saliti a Mar Musa nell’ambito di un periodo di jihad (impegno) spirituale per la “riconciliazione in Siria”. (Scritto per Ansa il 28 settembre 2011).
Gli Alawiti: i fedelissimi degli Assad

Il regime siriano degli Assad dopo tanti mesi di manifestazioni oceaniche si mantiene al potere continuando la sua durissima repressione I motivi vanno individuati nella particolare complessità del caso Siria e in particolate nel decisivo sostegno degli Alawiti
La setta alawita costituisce circa il dieci per cento della popolazione siriana. i sunniti costituiscono il 65 per cento, mentre curdi sunniti e cristiani costituiscono il dieci per cento ciascuno. Ismailiti drusi, sciiti, e altri gruppi minori formano il resto. Da quando pero il partito baath (socialista) di Assad ha preso il potere in Siria, il settarismo è diventato un tabù: ogni riferimento alle identità religiosa è stata duramente repressa ma l’appartenenza religiosa è rimasta nascosta ma non superata a somiglianza di quanto è avvenuto nella Yugoslavia comunista di Tito
Ma in qualunque forma l’identità religiosa ed etnica esiste in tutte le società, e in tempi di crisi, la identità collettiva viene spesso a indebolirsi èe la l’appartenenza etnico- religiosa ritorna fortissima .
Se l’elite ricca trascende queste identificazioni e tiene più conto della classe sociale, della professione, e altri fattori il riferimento etnico religioso si mantiene nella gente comune e come nei Balcani possono riesplodere improvvisamente e drammaticamente
Non si sa molto della fede alawita – anche tra la stessa comunità alawita –perche le sue credenze e le sue pratiche sono disponibili solo per pochi iniziati ma si sa che ha alcune dottrine lontane dell’Islam : credenza nella trasmigrazione dell’anima, la reincarnazione, la divinità di Ali ibn Abi Talib – il quarto califfo e cugino del Profeta Muhammad – e una santa trinità che comprende Ali , Muhamad e uno dei compagni del profeta, Salman al Farsi.
Nel mondo arabo la maggioranza sunnita esercita da sempre una egemonia che spesso ha perseguitato le sette di minoranza. come gli Alawiti. Un tema comune quindi della identità alawita è la paura di egemonia sunnita, basato su una storia di persecuzione che si è conclusa solo con la scomparsa dell’impero ottomano. Infatti con il mandato francese che ha sostituito l’impero ottomano nel 1918 gli Alawiti, come altre minoranza (per esempio i Maroniti del vicino Libano) hanno superato la marginalità tradizionale e iniziato anche un marcia verso l’egemonia e il potere favorita dal fatto che per forza di cose sono i sostenitori del laicismo che coincide con la loro emancipazione
Gli Alawiti sono stati i maggiori sostenitori del partito Baath ( socialista e laico) e della la sua ideologia pan-araba che era un modo per trascendere la stretta identità settaria, Inoltre l’occupazione negli uffici statali e soprattutto nell’esercito erano una opportunità per la promozione sociale e di fuga dalla povertà.
Cosi nel 1955, la maggior parte degli ufficiali che portaronoo il bath al potere erano Alawiti, che controllavano anche accademie militari,
Nel 1970 il potere fu preso dall’alawita ,Hafez al-Assad .il padre del presente rais che si circondò di persone del suo gruppo di cui poteva maggiormente fidarsi: la setta fu sovra-rappresentata nelle istituzioni statali.
Dal 1960, il regime siriano ha incoraggiato i contadini,soprattutto alawita, ad emigrare dalle regioni di montagna alla pianura, dando loro proprietà delle terre che erano appartenute ad una elite a maggioranza sunnita
Tuttavia poi la stessa identità degli Alawiti è stata spostata dall’ambito religioso a quello politico: la comunità non si identifica più nel proprio credo religioso ma solo e semplicemente nel sostegno della famiglia Assad mentre lo stesso Bath ha perduto ogni ideale iniziale.
Gli Alawiti erano storicamente respinti dell’Islam. Per essere accettato come leader, Assad ha dovuto convincere i sunniti che gli Alawiti erano in sostanza dei buoni mussulmani , Attualmente gli Alawiti non ricevono nessuna istruzione sulla loro stessa religione. i libri di scuola siriana non contengono alcuna menzione della parola “alawita”. L’educazione islamica nelle scuole siriane è tradizionale, rigida, e sunnita, non si fa nessun tentativo di inculcare nozioni di tolleranza e rispetto delle tradizioni religiose diverse dall’ islam sunnita tranne che per il cristianesimo che è un’eccezione
Il regime ha negato qualsiasi spazio pubblico agli Alawiti per praticare la loro religione. non riconoscono alcun consiglio alawita che possa elaborare elementi dottrinali e molti siriani la percepiscono come una fede misteriosa.
Gli Alawiti hanno fatto forse un buon affare economico- politico ; hanno perso la propria identità e accettato il mito che erano “buoni musulmani” per vincere l’opposizione sunnita La perdita del ruolo tradizionale dei capi Alawiti, impedisce loro di stabilire posizioni e di impegnarsi come una comunità nei confronti delle altre comunità siriane – rafforzando i timori settari e i sospetti .
Fra le confessioni siriane gli ,Alawiti sono i più laici possono vantare il maggior numero di matrimoni interconfessionali, e sono i più integrati con altre sette, nei rapporti sia personali che aziendali.
Gli Alawiti percepiscono se stessi come i più liberali e laici dei musulmani i Essi indicano il loro consumo di alcol, l’interazione libera tra i loro uomini e donne e il modo più occidentale del vestire e del comportarsi delle donne
E ‘ difficile dire che cosa rende qualcuno un alawita, tranne che che essere figlio di un alawita.
La maggioranza sunnita, nel frattempo, ricorda la brutalità con cui è stato schiacciato la insurrezione armata dei Fratelli Mussulmani che furono eliminati fisicamente in Siria e in gran parte sono assenti dalla rivolta in corso, anche se la maggior parte dei manifestanti di oggi sono sunniti conservatori.
Gli Alawiti aanno adottato lo slogan “Assad per sempre”, incapaci di separarsi dal regime o immaginare una Siria senza Assad. Percepiscono come un tradimento vergognoso non sostenerlo fino all’ultimo.
L’opposizione non è riuscita ad articolare una visione per quello che succederà alle decine di migliaia di Alawiti delle forze di sicurezza e dello Stato. ma minacciano di punire in futuro coloro che attivamente sostengono il regime
La fine del regime influirà direttamente quasi su ogni famiglia alawita.
E ‘facile dire se s è in una zona alawita in Siria in questi giorni. Sarà il luogo dove è addobbato ogni spazio disponibile con le foto del presidente Bashar, il fratello Maher e il loro padre Hafez. Si tratta di un culto della personalità, con muri portanti i graffiti: “Assad per sempre”e foto del presidente.
Gli Alawiti però negano di controllare lo stato, affermano anzi di essere sotto rappresentati nelle cariche pubbliche, che non hanno alcun fine settario che ma che si battono solo per la Siria, per tutta la Siria
Accusano i rivoltosi di essere degli ignoranti, di essere eterodiretti da un complotto internazionale guidato da sionisti e americani ( eterno ritornello di tutti le dispute fra Arabi) Affermano poi che gli Stati Uniti sono in combutta con gli islamisti il che suona molto strano ma viene giustificato dal fatto che gli Americani vorrebbero contrastare nel Medio Oriente l’influenza cinese
Starebbero usando gruppi musulmani contro la Cina; dicono che il Corano parla della minaccia da una invasione gialla. ( che però, in verita non ci risulta )
Con la presa di Tripoli dei ribelli libici assistiti dalla NATO sono preoccupati per la possibilità di un intervento Nato o della Turchia, loro potente vicino.
Alawiti
Alawiti (ar. ´Alawiyya) Nome («discendenti di ‛Alī») coniato dall’amministrazione francese per indicare la setta musulmana sciita dei Nuṣairī e la regione da essi abitata, fra Tripoli e Laodicea, sopra le falde occidentali del gebel Ansāriyya. Staccata dal Libano nel 1920 ed eretta in amministrazione autonoma con la denominazione di Territorio degli A., poi di Stato alawita, nel 1922 la regione entrò a far parte della Federazione siriana, dalla quale uscì nel 1924 ricostituendosi come Territorio autonomo degli A., poi divenuto (1930) Governatorato autonomo di Laodicea. Prefettura della repubblica siriana dal 1935, di nuovo territorio autonomo nel 1939, con la definitiva cessazione del mandato francese (1945) è stata reincorporata nella Siria.
da treccani
da treccani
Siria, alawiti 1
Gli alawiti sono la minoranza che governa la Siria, Paese a maggioranza sunnita. Il termine "alawiti", significa seguaci di Ali, vale a dire il cognato e cugino del profeta Maometto e padre del giovane Hussein, l'uomo venerato dagli sciiti e ucciso nella battaglia di Kerbala. L'episodio che diede vita allo scisma tra sunniti e sciiti. Teologicamente gli alawiti sostengono di essere sciiti duodecimani. Oltre al Corano, il loro libro sacro è il Kitab al Majmù. Gli alawiti vivono in tutte le grandi città della Siria, dove sono 2 milioni (circa il 20% della popolazione). Meno di 100mila alawiti vivono in Libano.
Siria, alawiti
Una utile e documentata analisi della popolazione e della religione siriana.
Gli alawiti, setta sciita alla quale appartengono gli Assad, crede in una trinità tutta umana ed ha molte affinità con l'Ismailismo. Come gli Sciiti Ismailiti, gli alauiti credono in un sistema di incarnazione divina, così come ad una lettura esoterica del Corano. Contrariamente agli ismailiti, gli alauiti considerano Alì come incarnazione della divinità della triade divina. Come tale, Ali è il "Significato"; Maometto, che Alì creò con la sua luce, è il "Nome"; e Salman il Persiano è il "cancello". Il catechismo alauita è espresso nella formula: "Mi rivolgo al cancello; mi inchino al nome; adoro il significato." Un alauita prega in una maniera che ricalca la shahada: "testimonio che non c'è Dio al di fuori di Alì." Ma egli deve anche dichiarare che è un musulmano. Gli alauiti credono di essere i veri e migliori musulmani. (...) La religione alauita è segreta e gli alauiti non accettano converititi, né la pubblicazione dei loro testi sacri. La gran parte degli alauiti conosce ben poco dei contenuti dei loro testi sacri o della loro teologia, che è custodita gelosamente da una ristretta cerchia di iniziati (...) La religione alauita sembra basarsi sullo gnosticismo e sul neoplatonismo. Secondo la fede alauita, tutte le persone erano in origine delle stelle nel mondo della luce, ma caddero dal firmamento a causa della disobbedienza. Il mondo materiale è un luogo pieno di pericoli, nemici e impurità. Il male essenziale di questa esistenza presente può essere evitato con l'aiuto del divino creatore. Ogni alauita ha nella sua anima una parte della luce del divino creatore, cui si può accedere e che porta alla retta via e alla salvezza. I fedeli alauiti credono che si dovranno trasformare o rinascere sette volte prima di tornare ad avere un posto tra le stelle, dove Alì è il principe. Se meritevoli di biasimo, essi rinascono talvolta come cristiani o ebrei, tra i quali rimarranno fino a quando l'espiazione sarà completa. Gli infedeli rinascono come animali. (...)
STORIA
Nel 1939 una parte della Siria nord-occidentale, il Sanjak di Alessandretta, l'odierna Hatay, che conteneva un gran numero di alauiti, venne ceduto alla Turchia dai francesi, facendo arrabbiare la comunità alauita e i siriani in generale. Zaki al-Arsuzi, il giovane capo alauita di Antioco, in Iskandariyya (in seguito chiamata Hatay dai turchi) che guidò la resistenza all'annessione della sua provincia da parte dei turchi, divenne in seguito un fondatore del Partito Ba'ath assieme a Michel Aflaq. Dopo la seconda guerra mondiale, quando le province alauite vennero unite con la Siria, i seguaci alauiti di Sulayman al-Murshid cercarono di resistere all'integrazione. Egli venne catturato ed impiccato dal governo Siriano, di recente indipendenza, a Damasco nel 1946.
Nel 1970, l'allora Colonnello dell'Aeronautica Militare Hafez al-Assad prese il potere ed incitò un "movimento correzionista" nel Partito Ba'ath. Nel 1971 al-Assad divenne presidente della Siria. Lo status degli alauiti venne migliorato significativamente e nel 1974 Imam Musa al-Sadr, capo degli sciiti duodecimani del Libano, proclamò l'accettazione degli alauiti come veri Musulmani. Fino a quel momento le autorità musulmane - sia Sunnite che Sciite - si erano rifiutate di riconoscerli come veri musulmani.
Gli alawiti, setta sciita alla quale appartengono gli Assad, crede in una trinità tutta umana ed ha molte affinità con l'Ismailismo. Come gli Sciiti Ismailiti, gli alauiti credono in un sistema di incarnazione divina, così come ad una lettura esoterica del Corano. Contrariamente agli ismailiti, gli alauiti considerano Alì come incarnazione della divinità della triade divina. Come tale, Ali è il "Significato"; Maometto, che Alì creò con la sua luce, è il "Nome"; e Salman il Persiano è il "cancello". Il catechismo alauita è espresso nella formula: "Mi rivolgo al cancello; mi inchino al nome; adoro il significato." Un alauita prega in una maniera che ricalca la shahada: "testimonio che non c'è Dio al di fuori di Alì." Ma egli deve anche dichiarare che è un musulmano. Gli alauiti credono di essere i veri e migliori musulmani. (...) La religione alauita è segreta e gli alauiti non accettano converititi, né la pubblicazione dei loro testi sacri. La gran parte degli alauiti conosce ben poco dei contenuti dei loro testi sacri o della loro teologia, che è custodita gelosamente da una ristretta cerchia di iniziati (...) La religione alauita sembra basarsi sullo gnosticismo e sul neoplatonismo. Secondo la fede alauita, tutte le persone erano in origine delle stelle nel mondo della luce, ma caddero dal firmamento a causa della disobbedienza. Il mondo materiale è un luogo pieno di pericoli, nemici e impurità. Il male essenziale di questa esistenza presente può essere evitato con l'aiuto del divino creatore. Ogni alauita ha nella sua anima una parte della luce del divino creatore, cui si può accedere e che porta alla retta via e alla salvezza. I fedeli alauiti credono che si dovranno trasformare o rinascere sette volte prima di tornare ad avere un posto tra le stelle, dove Alì è il principe. Se meritevoli di biasimo, essi rinascono talvolta come cristiani o ebrei, tra i quali rimarranno fino a quando l'espiazione sarà completa. Gli infedeli rinascono come animali. (...)
A causa della natura altamente sincretistica della religione, gli studiosi hanno sostenuto che l'alauismo è correlato alla cristianità perché gli alauiti hanno una trinità, bevono vino come possibile forma di comunione e riconoscono il natale. Diverse fonti sostengono invece che i loro riti comprendono resti dei rituali sacrificali fenici.
Anche se gli alauiti riconoscono i cinque pilastri dell'Islam, ma li considerano come doveri simbolici e pochi li seguono.
Anche se gli alauiti riconoscono i cinque pilastri dell'Islam, ma li considerano come doveri simbolici e pochi li seguono.
Nel 1939 una parte della Siria nord-occidentale, il Sanjak di Alessandretta, l'odierna Hatay, che conteneva un gran numero di alauiti, venne ceduto alla Turchia dai francesi, facendo arrabbiare la comunità alauita e i siriani in generale. Zaki al-Arsuzi, il giovane capo alauita di Antioco, in Iskandariyya (in seguito chiamata Hatay dai turchi) che guidò la resistenza all'annessione della sua provincia da parte dei turchi, divenne in seguito un fondatore del Partito Ba'ath assieme a Michel Aflaq. Dopo la seconda guerra mondiale, quando le province alauite vennero unite con la Siria, i seguaci alauiti di Sulayman al-Murshid cercarono di resistere all'integrazione. Egli venne catturato ed impiccato dal governo Siriano, di recente indipendenza, a Damasco nel 1946.
Nel 1970, l'allora Colonnello dell'Aeronautica Militare Hafez al-Assad prese il potere ed incitò un "movimento correzionista" nel Partito Ba'ath. Nel 1971 al-Assad divenne presidente della Siria. Lo status degli alauiti venne migliorato significativamente e nel 1974 Imam Musa al-Sadr, capo degli sciiti duodecimani del Libano, proclamò l'accettazione degli alauiti come veri Musulmani. Fino a quel momento le autorità musulmane - sia Sunnite che Sciite - si erano rifiutate di riconoscerli come veri musulmani.
sabato 7 gennaio 2012
Siria sotto la lente di ingrandimento
analisi di Pietro Somaini
Le rivolte in Siria: oltre 4mila morti
Ad oltre otto mesi dall'inizio della sollevazione popolare in Siria contro il regime di Bashar Al Assad si contano, ormai, almeno quattromila morti. I moti sono partiti a metà marzo dalla cittadina di Deraa, ai piedi del Jebel druso, non lontano dalla Giordania per poi estendersi a macchia di leopardo a gran parte del Paese toccando anche le periferie di Damasco ed Aleppo. Fino ad oggi la capitale ed il suo centro e Aleppo, la seconda città della Siria a Nord sono state relativamente risparmiate dal movimento di rivolta antiregime che, invece, ha investito in pieno le grandi città di Homs, Hama, Lattakia sulla costa mediterranea, quest'ultima città prevalentemente sunnita ai piedi del Jebel Ansar, la regione montuosa parallela alla costa abitata originariamente dalla minoranza alauita, salita al potere 41 anni fa con il clan degli Assad in funzione di "guardia pretoriana", all'interno del Partito socialista panarabo Baas e dell'esercito.
Chi sono gli Alauiti
Quella degli Alauiti di Siria è più un'identità "etnico - religiosa", se si può usare questo termine, che, propriamente, un credo religioso affermato apertamente verso l'esterno. L'alauismo deriva in parte dallo sciismo che si rifà al sesto Imam, da elementi di neoplatonismo, manicheismo ed apporti dei riti cristiani. E', insomma, una religione chiusa e sincretica. Di fatto gli alauiti hanno costituito sotto Hafez Al Assad, prima ministro della difesa, poi presidente dal 1970 alla morte nel maggio 2000, il nerbo del corpo degli ufficiali e dei sottufficiali e delle milizie del partito Baas. Ma il clan degli Assad ai vari livelli del partito quasi unico, dello Stato, delle Forze armate e delle classi sociali, particolarmente l'ampia borghesia mercantile urbana di Damasco ed Aleppo ha sempre dovuto cercare compromessi politici ed economici con gli interessi di una buona parte del mondo sunnita. I primi anni della presidenza di Bashar Al Assad, oftalmologo diplomato in Inghilterra, avevano lasciato sperare in un' apertura, modernizzazione e democratizzazione pluralistica, ma ben presto, forse anche al di là della volontà personale di Bashar, il regime è ritornato ai vecchi metodi repressivi nei confronti dei diritti umani e politici tanto cari alla tradizione del nazionalismo baasista.
Le reliigioni della Siria
La rivolta siriana si ispira a quelle della "primavera araba" ma si svolge in un Paese che non è omogeneamente sunnita come la Tunisia e la Libia o con una significativa minoranza cristiana come i Copti d'Egitto che rappresentano circa il 10% della popolazione.
In Siria i Sunniti sono circa il 60% a fronte di un 12 o 13% di Alauiti, di un 9 -10% di cristiani prevalentemente ortodossi, ma anche melchiti e siriaci, un 3% di Drusi, anch'essi con un'antica derivazione sciita e neoplatonica, e, infine, circa un 10% per cento di curdi che possono essere manovrati in funzione antiturca dal Pkk in connivenza con il regime di Damasco se la rivolta dovesse evolversi in vera e propria guerra civile e la crisi diventare internazionale.
Il ministro degli Esteri francese Alain Juppé ha riconosciuto il Consiglio nazionale siriano come interlocutore ufficiale, ha affermato che l'Unione europea dovrebbe mettere allo studio la possibile creazione di una "zona di sicurezza" non meglio precisata, ma ha escluso che un'opzione militare sia nell'agenda. In altre parole: la Siria che ha il quintuplo di abitanti della Libia è un vero e proprio puzzi e di etnie e religioni, dove i sunniti sono maggioritari, ma non in maniera geograficamente e politicamente omogenea. La minoranza cristiana, nelle sue varie componenti, ha preferito fino ad oggi rimanere sotto l'ala protettiva ed oppressiva del regime baasista, un po' come avvenne in Iraq, piuttosto che schierarsi per le istanze democratiche e pluralistiche dell'opposizione prevalentemente sunnita. Alla stampa estera viene impedito da mesi l'accesso in Siria e si hanno solo pochi video filmati clandestini. L'organizzazione dell'opposizione più ampia è il Cns, guidato da Burhan Ghaliun, che gode di un riconoscimento internazionale e che al proprio interno vede forze di tendenza sia islamista che laica. Vi è, poi, il Cncd (Comitato nazionale di coordinamento per il cambiamento democratico) di impronta più laica. Vi sono infine varie personalità politiche ed intellettuali che hanno preso le distanze dal regime ma non si sono ancora schierate in maniera univoca. In varie località al confine con la Turchia e, particolarmente, nella zona di Homs, terza città del Paese, alcune migliaia di militari e parecchie decine di ufficiali, già da alcuni mesi hanno iniziato a disertare dalle divisioni meno operative, e hanno incominciato azioni o di guerriglia urbana a fianco dei manifestanti o attività militari su più vasta scala.
Le stime sulla consistenza dell'Asl (Armata siriana libera) variano tra i 2 - 3 mila e i 20 mila uomini (cifra, forse, un po' esagerata) guidata dal colonnello Ryiad Al Assaad, rifugiato in Turchia. Quest'ultima è stata costretta a passare da una posizione di riavvicinamento e cooperazione con la Siria ad una di rottura aperta quando il regime baasista ha cominciato a sparare sul proprio popolo.
La crisi tra Turchia e Siria
La rottura tra Ankara e Damasco è avvenuta dal punto di vista turco "obtorto collo", poiché la linea ufficiale "neottomana" del premier Erdogan e del ministro degli Esteri Davutoglu era quella di non avere nemici in Medio Oriente e di svolgere, anzi, una funzione di leadership pacifica economica e politica nella regione. Fino ad ora a desiderare una contrapposizione della Turchia nei confronti dell'Iran (per le note questioni su cui non ritorniamo se non per accenno: Israele, nucleare ecc.) erano più gli ambienti angloamericani che non i turchi desiderosi di proseguire nel loro straordinario ritmo di sviluppo economico che non potrebbe che essere danneggiato da una guerra più o meno vasta.
La realtà della rivolta popolare e democratica siriana è dunque complessa e foriera di complicazioni internazionali (omettiamo, volutamente, per il momento di nominare le implicazioni libanesi e, ancor più quelle israeliane, della questione). Se si può dire che il Paese che per ragioni geopolitiche ha più voce in capitolo sull'evoluzione della situazione siriana è la Turchia, altrettanto si può affermare che un peso determinante sui prossimi eventi di Damasco l'avranno quelli che risulteranno dall'intricato, macchinoso ed incerto processo elettorale del Cairo.
Pietro Somaini, giornalista
siria, Il futuro nelle mani di una donna filo occidentale
Il futuro nelle mani di una donna filo occidentale
Argomento: Donne alla ribalta | Tipo di notizia: Internazionale | Autore: LA PADANIA
siriano Bashar al Assad e potrebbe essere lei la chiave di volta per risolvere la crisi.
Nata 35 anni fa a Londra da una madre diplomatica e da un padre cardiologo, è indicata come la maggiore consulente del marito. C'è chi confida nei suoi ideali liberali e nel suo impegno a favore della "cittadinanza attiva" per metter fine alla dura repressione in atto a Daraa e in altre città del Paese, dove dal 18 marzo sono in corso manifestazioni anti governative. Doppia cittadinanza siriana e britannica, Asma era nota come Emma ai suoi compagni di scuola e di università a Londra. Descritta come «una donna inglese in ogni senso, nel modo di vestirsi, parlare e atteggiarsi» da un giornalista britannico che l'ha incontrata di recente, questa giovane signora potrebbe presto svolgere un ruolo chiave nel futuro della Siria. Come fedele consulente del marito presidente, Asma, che un'altra celeberrima rivista fashion, la francese Elle ha indicato come "la donna più bella in politica", potrebbe riuscíre a convincerlo a metter fine alle rivolte in corso offrendo riforme politiche. Diverse first lady arabe, da Leila Tablisi moglie del tunisino Ben Ali a Susanne Mubarak, moglie dell'ex raìs egiziano, hanno ricevuto diverse critiche per la loro vicinanza ai poteri corrotti; Asrrz, la più filo occidentale delle mogli di capi di Stato mediorientali, è stata invece definita come «la migliore speranza della leadership» di Damasco.
I genitori di Asma, entrambi musulmani sunniti, hanno abbandonato la Siria per trasferirsi a Londra dove il padre, impegnato presso il Cromwell Hospital, avrebbe avuto un miglior livello di educazione e di addestramento medico. Asma è stata educata presso la scuola della Chiesa di Inghilterra prima di frequentare un istituto privato per sole bambine, il Queen's College ad Harley Street. Da qui, Asma è poi andata al King's College di Londra, dove ha studiato informatica e conseguito un diploma in letteratura francese. Dopo sei mesi di viaggi è entrata aIla Deutsche Bank come analista in hedge fund management. Quindi si è trasferita alla banca di investimenti JP Morgan e ha lavorato tra Parigi e New York, oltre che a Londra. Durante una vacanza ín Siria con la sua famiglia ha conosciuto Bashar.
Tl futuro presidente sí è quindi trasferito a Londra per studiare oftalmologia e qui è rimasto fino a quando il fratello maggiore Basil, designato a succedere al padre alla presidenza, è morto in un incidente stradale. Asma e Bashar hanno iniziato a frequentarsi in segreto e lei ha dato le dimissioni dalla JP Morgan solo un mese prima di sposarsi e senza dare spiegazioni. Chi la conosce dice che, ovviamente, avendo trascorso 25 anni della sua vita a Londra Asma abbia valori liberali occidentali.
A Damasco, Bashar e Asma vivono in un appartamento con grandi vetrate e i loro tre figli frequentano una scuola Montessori. Asma parla quattro lingue e i suoi rapporti con la Francia l'hanno portata a impegnarsi a tal punto da riuscire a far aprire al museo del Louvre una sezione dedicata alle attrazioni culturali siriane. Si è anche ímpegnata per la
costruzione di "una cittadinanza attiva" in Siria, cercando di coinvolgere i suoi connazionali in uno "spirito di apertura"
Mentre i social network erano vietati in Siria, Asma si è creata una pagina Facebook personale; figlia di musulmani sunniti, ha un marito che appartiene alla minoranza degli Alawiti. Insieme al padre ha istituito diverse organizzazioni di beneficenza a Londra, come la Syria Heritage Foundation di cui fanno parte, tra gli altrí, Lord Powell, già consulente di Margaret Thatcher, e Wafic Said, il miliardario fondatore della Said Business School presso la Oxford University.
Sulla sua sincerità non ci sono dubbi, ma secondo gli analisti ci sono in realtà poche speranze che lei ríesca realmenté a convincere il marito e la famiglia degli Assad, al potere dal 1963, ad attuare vere riforme ín sen-so democratico. Anche per questo, forse, la bella Asma non è ben vista dalla suocera, moglie del sanguinario dittatore Hafez, e ín generale dalla famiglia del marito.
Siria ,Ecco la mappa della rivolta
Ecco la mappa della rivolta in Siria
Le forze di sicurezza e gli uomini della rivoluzione s’affrontano per il controllo di dieci città chiave

Deraa. E’ a Deraa, lungo il confine con la Giordania, il pericolo più grave per il regime del presidente siriano, Bashar el Assad. Migliaia di manifestanti hanno sfidato per settimane il fuoco dell’esercito e la vendetta del governo. Sono stati i primi a protestare e hanno fatto capire subito quale fosse il loro vero obiettivo: a marzo, in un solo giorno, hanno distrutto la sede del partito Baath, vicino agli Assad da quando sono al potere, e quella della compagnia telefonica Syriatel, che appartiene a un cugino di Bashar (Rami Makhlouf) ed è sottoposta alle sanzioni americane. Le Forze di sicurezza non hanno mostrato pietà per questo posto di frontiera, che è diventato in fretta il centro della rivolta. Hanno arrestato una ventina di bambini che avevano coperto i muri della loro scuola con scritte antiregime, hanno portato i carri armati nel centro della città e ora tremila soldati rastrellano le sue strade. Venti persone sarebbero morte soltanto lunedì. Assad non può cedere: il confine sud, quello dell’Iraq e della Giordania, così come quello occidentale con il Libano, potrebbe essere usato dai ribelli per rimediare armi.
Latakia. C’è stato un tempo in cui Latakia – la greca Laodicea – era capitale degli alawiti, la piccola élite religiosa dominante a cui oggi appartengono tutti i pezzi grossi del regime. Dal 1930 al 1936, fu anche uno staterello costiero inventato dai francesi: il Sangiaccato di Latakia. Non per nulla gli Assad vengono da là. Oggi invece la popolazione della città-porto è mista, ci sono cristiani greco-ortodossi, musulmani e appunto alawiti. La rivoluzione brucia: ci sono manifestazioni, cecchini sui tetti e morti, sedici in due soli giorni alla fine di marzo. Il regime per ora ha mandato truppe a piedi, ma non i carri armati. Nei suoi ampi quartieri residenziali si dice siano nascoste enormi basi della polizia segreta. Perdere la loro ex capitale e un governatorato così importante sarebbe un duro colpo per gli alawiti. Il quartiere centro delle rivolte per ora è Sleibi, nella parte sud.
Homs. C’è una cosa che i giovani di Homs hanno capito bene negli ultimi giorni: le rivoluzioni non si vincono su Internet. I loro appelli alla rivolta diffusi via Facebook e via Twitter non hanno ancora avuto la meglio sulle squadre speciali dell’esercito, che adesso attaccano persino i funerali. Una settimana fa hanno aperto il fuoco nel cuore della notte per disperdere un sit-in pacifico – il video della carneficina è stato diffuso soltanto da due giorni. Questa città di un milione e mezzo di abitanti è strategica per l’industria nazionale, ma è anche il bastione della borghesia, degli avvocati, dei giornalisti e dei medici che qui sono un gruppo potente e ben organizzato. Alla rivolta si sono uniti anche i religiosi. Come Sheikh Sahl Junaid, un rappresentante del clero che raduna a cadenza regolare centinaia di giovani nelle piazze di Homs – e grida loro di scappare quando l’esercito lo avvisa che la pazienza è finita.
Tartous. Conosciuta anche come Tortosa quando era proprietà di crociati e di genovesi, è investita soltanto di striscio dall’ondata di proteste – che per ora avvengono soprattutto bloccando la strada che la collega, a un’ora di distanza, all’altro grande porto siriano di Latakia. Il rischio sembra basso. Eppure è una città decisiva per il regime, perché è stata ceduta al Quinto squadrone della Flotta navale russa. Grazie a un accordo con gli Assad, Mosca ha navi armate di ordigni nucleari nel Mediterraneo, una presenza minacciosa che serve da strumento di pressione geopolitica. Tartous è defilata, ma forse per questo è sempre al centro di intrighi internazionali. Da là sarebbero partiti i carichi segreti di armi forniti dal regime ai mercenari di Gheddafi, là sarebbero arrivati i container nordcoreani pieni di materiale nucleare di contrabbando. Nel 2008 un generale e consigliere di Bashar el Assad, Muhammad Suleiman, fu ucciso da un cecchino nella sua villa sul mare. Si parlò di un assassinio targato Mossad, ma la versione più credibile racconta un’uccisione dovuta a una faida fra i capi del regime.
Jableh. Poche città in Siria hanno la rivolta nel sangue come Jableh. Qui, alla fine dell’Ottocento, nacque Izz ad Din al Qassam, il condottiero musulmano che organizzò la resistenza contro l’esercito francese e proseguì la propria lotta in Palestina – il suo nome è venerato da Hamas, che gli ha intitolato i missili artigianali con i quali colpisce Israele e una brigata paramilitare. Anche questo centro di mare è diventato un problema per il regime: prima le forze di sicurezza si sono limitate agli arresti (oltre 500 persone sono finite in carcere nell’ultimo mese), poi hanno cominciato a sparare. Tredici uomini sono stati uccisi domenica, quando le Forze speciali hanno fatto irruzione nel centro di Jableh per fermare un corteo, ma il bilancio salirà, dato che il regime non intende fare concessioni. Assad ha già ridotto le forniture di acqua e di energia, ora pronto a riportare la propria legge lungo la costa.
Qatana. Quando venerdì scorso anche la città di Qatana, a ovest della capitale Damasco, si è unita alla rivolta con proteste nelle strade, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Da quel momento il regime ha scelto di agire con brutalità e ha deciso l’impiego dei carri armati giù al sud. Qatana è una città semi militarizzata – molto vicina al confine con il Libano – che è andata sempre d’accordo con l’esercito, ospita le basi più grandi delle unità corazzate siriane, appartenenti alla Settima divisione (sarebbe di certo una delle prime a essere impiegata in caso di guerra contro Israele). I suoi abitanti sono in maggioranza o militari oppure personale civile che lavora nelle caserme. La ribellione di Qatana equivale quasi a una ribellione dentro l’esercito, l’evento più temuto dal regime. Due settimane fa s’è sparsa la voce – non si sa quanto creata ad arte – che alcuni terroristi islamici, sauditi e iracheni, fossero in città per attaccare una chiesa.
Aleppo. Aleppo la Grigia, la capitale del nord, la terza città cristiana del mondo arabo dopo Beirut e il Cairo, è il simbolo della strategia che il regime intende usare per domare la rivoluzione. I suoi abitanti per ora non si sono uniti alle proteste e – a parte alcune centinaia di studenti universitari, teste calde per eccellenza – non sembrano morire dalla voglia di farlo. La realtà è che il governo sta convincendo i cristiani che il golpe sunnita sarebbe cosa dannosa per loro. Bashar el Assad è sempre stato molto attento a coltivarsi la simpatia del suo dieci per cento di cristiani, arrivando a pregare assieme a loro e leggendo messaggi presidenziali ogni Natale. Come gli alawiti del regime, anche i cristiani occupano una larga parte dei posti migliori, nelle professioni e nelle istituzioni, e temono il rovesciamento dei rapporti di forza che potrebbe seguire alla rivolta. Nei villaggi attorno a Damasco sono arrivati al punto di rimandare matrimoni e di tenere i bambini a casa. Ad Aleppo non è così, non c’è panico, ma la sua sordità alle ragioni delle manifestazioni è eloquente. Se anche là scoppiassero proteste, per i due fratelli Assad sarebbe un grande problema, perché le forze di sicurezza a disposizione in questo momento sono concentrate al sud.
Hama. Nella città di Hama, 150 chilometri a sud di Aleppo, non si registrano grandi proteste. Ma il suo nome ricorre di continuo nelle cronache di questi giorni. Hama è il famigerato “modello Hama”, a cui il regime baathista ricorrerà se sentirà – come già sente adesso – in pericolo la propria sopravvivenza. Hama è il nome maledetto che per tutti questi anni ha paralizzato l’opposizione e ancora oggi blocca tanti siriani dallo scendere in piazza. Nel 1982 il fratello minore del presidente Hafez el Assad, Rifaat, rase al suolo con l’artiglieria la città per schiacciare una rivolta dei Fratelli musulmani con brutalità che fosse d’esempio per chiunque altro. Il numero delle vittime non è chiaro ancora oggi, ma fu tra le ventimila e le quarantamila. Il massacro fu di terribile efficacia e spiega perché una minoranza così debole come quella alawita oggi ha in pugno le leve del potere, pur dovendo confrontarsi con un ottanta per cento di potenziali nemici. I Fratelli musulmani sopravvissuti si dispersero e non se ne è più sentito parlare fino a questi giorni.
Banias. Se si vuole capire come mai il regime di Assad stia usando tanta forza per impedire ai ribelli di prendere la città di Banias, basta guardare la mappa dell’energia siriana. Questa città di cinquantamila abitanti possiede una centrale elettrica e una delle raffinerie più grandi del paese: da Banias dipendono le forniture al nord, compresi i centri portuali della costa siriana. Il governo ha ammassato migliaia di truppe intorno alla città che hanno già attaccato la periferia. Allo stesso modo, ha deciso di mettere sotto assedio la vicina Baida, che è stata “punita” per avere ospitato i ribelli di Banias. “I soldati circondavano i manifestanti nelle piazze e li picchiavano”, ha detto al New York Times il rappresentante di una organizzazione per i diritti umani, Wissam Tarif. Le autorità siriane hanno una versione completamente diversa. Dicono che i ribelli hanno cominciato la guerriglia e sono già riusciti a uccidere nove militari. Di qui la risposta dell’esercito. Dopo gli incidenti di Banias e Baida, che sono cominciati il 12 aprile, anche la Casa Bianca ha definito “un oltraggio” la repressione di Assad.
Damasco. La rivolta siriana non è ancora entrata a Damasco, capitale della Siria e roccaforte degli Assad, la famiglia che guida il paese dagli anni Sessanta. Tutti aspettano quel giorno decisivo e molti pensano che verrà presto, ma sinora l’esercito è intervenuto soltanto alla periferia nord e ha lanciato un messaggio chiaro: non ci saranno sconti per chi manifesta. Da Damasco, Bashar el Assad gestisce la macchina della repressione, mentre il fratello Maher, il capo della guardia presidenziale, si muove sul campo. Bashar ha revocato lo stato di emergenza (senza per questo ridursi i poteri) e rischia nuove sanzioni dall’occidente. Ma il suo pensiero più grande, ora, è tenere i ribelli lontano dalla capitale.
L’atlante della rivolta in Siria
L’atlante della rivolta in Siria
di Lorenzo Trombetta

Limes 3/2011 "(Contro)rivoluzioni in corso" | Articoli sulla primavera araba

COLLEGAMENTI
A metà strada tra l'asse sud-nord Damasco-Aleppo, confinante con il nord del Libano, Homs e il suo ampio hinterland, che finisce per inglobare anche Hama poco più a nord, sono oggi più di ieri al centro del paese. Non solo geograficamente.
La regione a maggioranza alawita è quella a nord-ovest, che dalle spiagge di Latakia-Jabla-Banias si estende verso est fino alle montagne dove sorgono i villaggi da cui provengono i padri e i nonni degli al-Asad e degli altri clan alleati al potere da decenni. Tra la capitale e le montagne dei Nusairiti (termine con cui la storiografia arabo-sunnita per secoli ha chiamato gli alawiti, branca dello sciismo) si trova la regione di Homs. Composta in larga parte da sunniti, ospita a ovest significative sacche di cristiani (Wadi an-Nasara), presenti fino a Safita e a Tortosa sul mare. A sud-ovest c'è il Libano: la regione di Wadi Khaled, punteggiata di qualche località alawita ma tradizionalmente feudo di sunniti e di minoranze cristiane. A est si estende invece la regione desertica che arriva fino ai confini con l'Iraq, interrotta dall'oasi di Tadmor (Palmira), abitata per lo più da tribù sunnite.
Da metà aprile Homs è l'epicentro della rivolta anti-regime più difficile da domare per Damasco. Secondo le cifre fornite dagli attivisti e non verificabili sul terreno, sono 935 gli uccisi provenienti dalla terza città siriana e dai suoi dintorni, su un totale di oltre 3.279 morti (bilancio aggiornato al 5 ottobre 2011). A Daraa, nella regione meridionale dell'Hawran e prima località a ribellarsi a marzo, si contano oltre 600 uccisi, e da Hama (terzo posto) giunge una lista di 391 vittime.
È a Homs, e solo successivamente ad Hama, che i manifestanti erano riusciti a formare un sit-in permanente di protesta nella piazza principale, prima di esser spazzati via dall'esercito e dalle milizie lealiste note come shabbiha; gli attivisti locali affermano che in quella notte del 19 aprile furono uccise centinaia di persone, i cui nomi risultano iscritti ancora tra i "dispersi" perché i corpi non sono stati ancora ritrovati.
È in due cittadine nei pressi di Homs che centinaia (secondo altre fonti, migliaia) di soldati disertori si sono rifugiati e hanno organizzato il primo fronte di resistenza contro le forze fedeli al presidente Bashar al-Asad.
La prima è Rastan, centro di 40 mila abitanti che si trova a metà strada tra Homs e Hama, quest'ultima nota ai più per esser stata nel 1982 teatro di un massacro dalle dimensioni mai ancora appurate compiuto dal regime contro i locali e i ribelli legati alla Fratellanza musulmana al termine di sei anni di guerra civile.Rastan è anche la città natale dell'ex ministro della difesa Mustafa Tlass, sunnita, membro della cerchia di potere del defunto raìs siriano Hafez al Assad. I Tlass sono una dei clan più numerosi e in vista della città. Numerosi suoi membri hanno ingrossato nel corso degli ultimi due decenni le file degli ufficiali e sottufficiali dell'esercito regolare, ma di loro solo Manaf, figlio dell'ex ministro della difesa e vicino a Maher al-Asad, fratello del presidente, è indicato come fedele, almeno formalmente, al regime.
Uno dei primi disertori ad annunciare nei mesi scorsi la sua defezione in un video amatoriale diffuso dalle tv satellitari panarabe veniva proprio da Rastan ed era un Tlass. Assieme a lui, col passare delle settimane, si sono uniti alla rivolta molti altri coscritti e sottufficiali, assieme a un pugno di ufficiali. Questi - secondo i racconti che giungono confusi dalla regione di Homs - hanno provato a resistere all'assalto condotto la settimana scorsa dalle forze governative contro Rastan. I pochi sopravvissuti si sono rifugiati a Talbisse, l'altra località chiave nel braccio di ferro in corso nel centro della Siria.
Talbisse si trova tra Homs e Rastan e, mentre si scrive, vengono riportate notizie di arresti e perquisizioni seguite a spari di arma da fuoco ed esplosioni di colpi di artiglieria, mentre la cittadina è descritta come circondata dai carri armati dell'esercito governativo.
Se attorno a Homs la terra brucia, in città si moltiplicano le notizie di una serie di omicidi mirati, a sfondo confessionale. Il tessuto sociale e urbano di Homs rappresenta un esemplare microcosmo siriano: storicamente dominata dalla borghesia commerciale sunnita che abita i quartieri centrali, condivise anche da cristiani concentrati nell'antico rione di Hamidiya. Vi sono poi quartieri sunniti più popolari - Bab Sbaab, Bab Dreib, Khalidiya - che sono gli epicentri cittadini della rivolta. Questi non distano molto da due sacche alawite - Nuzha e Zahra - confinanti a loro volta con Hamidiya cristiano.
Proprio mentre infuriava la battaglia di Rastan, nel giro di quattro giorni sono stati uccisi da non meglio precisati sicari ("terroristi" per i media di regime, "lealisti" per gli attivisti) tre accademici, un primario di chirurgia e due insegnanti scolastici.Il medico, titolare all'ospedale pubblico di Homs, secondo alcuni resoconti sarebbe stato ucciso per vendetta: avrebbe consentito a uomini dei servizi di sicurezza di prelevare i feriti dai loro letti dopo le manifestazioni di protesta.Uno dei due accademici sarebbe invece stato punito dagli shabbiha perché alla delegazione di deputati russi recatisi di recente a Damasco e Homs "per valutare la situazione" avrebbe raccontato una versione dei fatti diversa da quella suggerita dal regime.
L'agenzia ufficiale Sana ha riferito dal canto suo del sequestro di numerosi carichi di armi nella regione di Homs giunti illegalmente dal Libano. E la tv di Stato trasmette con frequenza quasi regolare le confessioni di "terroristi", siriani, che ammettono di essere in contatto con cellule nel vicino Libano.
Interpellato da Limes, Nasser Diya, pseudonimo di un attivista di Homs rifugiatosi a Beirut, ammette che "sì le armi ci sono in città, ma la stragrande maggioranza degli episodi di violenza sono commessi dalle forze di sicurezza. Se qualche locale risponde o si vendica della perdita di un proprio caro, si tratta ancora di episodi individuali".
"Non si può parlare di opposizione armata", aggiunge Diya. "Non esistono posti di blocco degli oppositori. È impensabile, perché la città è piena di milizie lealiste e soldati fedeli al raìs".
"È vero - prosegue l'attivista di Homs - ci sono stati casi in cui un ospedale privato è stato protetto per qualche giorno da guardie beduine, del quartiere periferico di al-Waar, che si sono unite alla rivolta ma che sono state poi sopraffatte dall'assalto delle forze di sicurezza. Perché le munizioni in mano a chi tenta di resistere sono limitate, mentre il regime ha rifornimenti in abbondanza".
L'ospedale privato al-Barr era stato protetto perché nelle altre cliniche l'ordine impartito a medici e infermieri era quello di non accogliere attivisti feriti, ricorda Diya, confermando quanto trapelato da altre città siriane teatro di repressioni. I media ufficiali smentiscono questa versione dei fatti.
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