Crisi, rivoluzione al Lingotto: benzina a 1 euro per 3 anni per chi compra un'auto Fiat - Economia - ilGiornale.it
DOMANDA:
Negli anni 70 un comune impiegato statale manteneva DA SOLO una famiglia con 2 figli, in affitto a Roma e faceva 1 mese di vacanze.
Oggi una giovane coppia non riesce ad arrivare a fine mese LAVORANDO IN 2.
Ma in questi 40 anni la tecnologia ha fatto passi da gigante e quello che un lavoratore produceva allora in 8 ore di lavoro oggi si fa al massimo in 1 ora.... quindi se le condizioni fossero rimaste le stesse oggi il lavoratore.. lavorerebbe solo 1 ora al giorno per mantenere tutta la famiglia e le ore in più ci avrebbero fatti ricchi!?
Tutta la crescita e progresso tecnologico, il PIL, ecc. invece di sollevarci dal problema di lavorare per vivere ci hanno resi più schiavi..... PERCHE?".
venerdì 1 giugno 2012
giovedì 24 maggio 2012
Sinistra e Repubblica davano del "guitto" al giudice Falcone...
Sinistra e Repubblica davano del "guitto" al giudice Falcone...
Adesso i compagni lo osannano come "l'amico Giovanni", ma nel gennaio 1992 il quotidiano di Mauro lo massacrò: "Sempre in tv, incarna i peggiori vizi nazionali". E Leoluca Orlando disse: "Tiene nei cassetti le carte dei delitti eccellenti di mafia"
di Mariateresa Conti - 24 maggio 2012, 08:53

Giovanni Falcone
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La colpa, anzi le colpe? Diverse - dall’incriminazione per calunnia del pentito Giuseppe Pellegriti che accusò Salvo Lima, alla scelta di andareaRoma, alfianco dell’allora ministro di Giustizia Claudio Martelli, a dirigere gli Affari penali- riconducibili però a un unico peccato originale: l’essere, Giovanni Falcone, un magistrato tutto d’un pezzo, che non si lasciava influenzare da politica e umori di piazza, e che soprattutto, ai teoremi tanto cari a sinistra, preferiva una regola, così sintetizzata ancora in Cose di Cosa nostra : «Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio».
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Fare memoria, nell’anniversario della strage di quel maledetto sabato di 20 anni fa, è anche questo. Perché è facile, potenza della tv, ricordare Orlando che accusò Falcone di «tenere le carte nei cassetti»(accusa costata all’«amico Giovanni» di oggi un procedimento davanti al Csm), o il «Giovanni, non mi piaci nel Palazzo» di un altro retino doc dell’epoca, l’avvocato Alfredo Galasso, durante una storica staffetta televisiva antimafia, a un mese dall’uccisione di Libero Grassi, tra Maurizio Costanzo e Michele Santoro, a settembre del 1991. Ma pochi forse ricordano un articolo firmato dal blasonato Sandro Viola pubblicato il 9 gennaio del 1992 da Repubblica e adesso prudentemente rimosso dal sito internet del quotidiano di Ezio Mauro.
«Falcone che peccato...», il titolo. Che non rende appieno l’attacco, durissimo, al magistrato che quattro mesi dopo sarebbe stato ammazzato sull’autostrada, a Capaci. «Da qualche tempo – scrive Viola nell’editoriale–sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s’era guadagnato.Egli è stato preso infatti da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali». Viola si chiede «come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista». E attacca proprio Cose di cosa nostra , diventato dopo le stragi del ’92 una sorta di testamento morale di Falcone.
«Scorrendo il libro- intervista – scrive ancora l’editorialista – s’avverte l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi». Non che Repubblica non fosse in buona compagnia, quanto a “sinistri” attacchi. PaoloBorsellino, vittima anche lui (57 giorni dopo Capaci, il 19 luglio del ’92) di quell’estate di sangue,diceva che l’«amico Giovanni » (stavolta sì che la familiarità è autentica), aveva cominciato a morire quando il fuoco amico dei colleghi gli aveva sbarrato la strada nel 1988, alla nomina a procuratore capo di Palermo.
Fu Md- tra le toghe di sinistra si distinse Elena Paciotti, poi europarlamentare Pd- a guidare la crociata contro Falcone. E sempre il fuoco amico di sinistra e colleghi di sinistra sbarrò a Falcone, poco prima di morire, la strada alla nomina alla guida della neonata Direzione nazionale antimafia. «Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché», tuonarono i compagni sull’Unità . Il tritolo di Capaci, poi, fece il resto. Quanti attacchi, quante amarezze da sinistra per l’«amico Giovanni».
Attacchi che non si spengono, neanche dopo 20 anni. Al neo sindaco Leoluca Orlando- fu lui, da sindaco, a sposare nel 1986 Giovanni Falcone e Francesca Morvillo - Maria Falcone, la sorella del magistrato ucciso, ha mandato a dire, oggi: «Dica quattro parole: “Con Falcone ho sbagliato”».
mercoledì 7 marzo 2012
Milano-Parigi in 5 ore, senza buchi | Debora Billi | Il Fatto Quotidiano
Milano-Parigi in 5 ore, senza buchi | Debora Billi | Il Fatto Quotidiano: Nel 1980 attrverso i valichi, stradali e ferroviatio, tra Italia e Francia passavano 35 Mil. di tonnllate di merci contro 25 tra Svizzera e Italia e 29 tra Austria ed Italia. Nel 2010 siamo a 23 tra Francia e Italia contro 38.4 tra Svizzera e Italia e 43 tra Austria e Italia. In venti anni il traffico merci attraverso le Alpi è aumentato del 107 % salvo che il collo di bottiglia del Frejus/Monte Bianco lo ha fatto perdere al Piemonte. La tua proposta sembra di marca leghista, volete sviluppare il Lombardo/Veneto a spese del Piemonte ?
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lunedì 27 febbraio 2012
Valsusa, militante caduto da traliccio: è in coma. Iniziative di solidarietà in tutta Italia | Redazione Il Fatto Quotidiano | Il Fatto Quotidiano
Valsusa, militante caduto da traliccio: è in coma. Iniziative di solidarietà in tutta Italia | Redazione Il Fatto Quotidiano | Il Fatto Quotidiano: Giovanni Moderatore 5 minuti fa in risposta a sting-2012
Stai messo male, gli unici argomenti che hai sono inesistenti!
L'intelligenza dialettica sta proprio nel riuscire a far capire agli altri argomenti complessi, non nel proporre il vuoto di argomentazione nascondendo la propria incapacità discorsiva nell'offesa alla controparte.
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Stai messo male, gli unici argomenti che hai sono inesistenti!
L'intelligenza dialettica sta proprio nel riuscire a far capire agli altri argomenti complessi, non nel proporre il vuoto di argomentazione nascondendo la propria incapacità discorsiva nell'offesa alla controparte.
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domenica 26 febbraio 2012
Pansa Caselli viene contestato e si lamenta Gli spiego che significa affrontare i violenti - giampaolo pansa, sinistra, comunisti, giancarlo caselli, aldo cazzullo, bestiario, libero - liberoquotidiano.it
Pansa Caselli viene contestato e si lamenta Gli spiego che significa affrontare i violenti - giampaolo pansa, sinistra, comunisti, giancarlo caselli, aldo cazzullo, bestiario, libero - liberoquotidiano.it: Libero pensiero
Pansa Caselli viene contestato e si lamenta Gli spiego che significa affrontare i violenti
Gli estremisti contro il magistrato, così come accade a decine di autori come il sottoscritto. Ecco perché lui rischia di diventare ridicolo
Pansa Caselli viene contestato e si lamenta Gli spiego che significa affrontare i violenti
liberoquotidiano.it
Diventare un uomo ridicolo. Dopo aver tanto lottato contro terroristi e mafiosi, è questo il rischio che corre Giancarlo Caselli, super magistrato e capo della Procura di Torino. Lo corre per un motivo sciocco: considerarsi l’unica vittima di estremisti violenti che contestano i suoi libri e il suo lavoro. Caselli dimentica di essere soltanto l’ultimo dei tanti costretti a fare la stessa esperienza. E adesso gli racconterò il mio caso. Nel 2003 pubblico Il sangue dei vinti, libro che racconta le vendette dei partigiani dopo il 25 aprile, contro i fascisti sconfitti. Nasce un trambusto pazzesco sui giornali e alla tivù. Vecchi amici di sinistra mi accusano di averlo scritto per soldi e su ordine di Silvio Berlusconi, in quel momento al governo. Ma la piazza, o la piazzetta, non si muove. Deve assalire il Caimano e non ha tempo da perdere con un microbo come me. Continuo a scrivere libri revisionisti sulla guerra civile e nell’ottobre 2006 esce La grande bugia. La stagione politica è cambiata. Adesso al governo c’è il secondo centrosinistra di Romano Prodi. Il Cavaliere è sconfitto e può essere lasciato in pace. L’attenzione si sposta sul microbo Pansa. Un testardo che si merita una bella lezione. Il 16 ottobre 2006 si tiene a Reggio Emilia il primo di una serie di dibattiti su quel libro. Il salone di un hotel della città è strapieno. A dialogare con me c’è Aldo Cazzullo, giornalista, inviato speciale del Corriere della sera. Sto per rispondere alla sua domanda iniziale quando nella sala, tra la gente, emerge una dozzina di violenti. Vogliono interrompere la serata e punirmi.
Il capo del gruppo corre verso il nostro tavolo e mi scaglia addosso una copia della Grande bugia, urlando: «È un libro infame, sono venuto da Roma apposta per gettarglielo in faccia!». Segue un lancio di volantini stampati con cura. Riproducono una banconota da 50 euro con la scritta: «Pansa prezzolato - con l’infamia ci hai speculato». Arrivato alla nostra pedana, il gruppo srotola un lenzuolo color sangue, con lo slogan «Triangolo rosso? Nessun rimorso». Come a dire, i partigiani comunisti hanno fatto bene ad accoppare tanti nemici della rivoluzione. I violenti sono molto agitati. Urlano da forsennati. Mostrano al pubblico il pugno chiuso. Uno di loro strilla di continuo, a macchinetta: «Viva Schio! Viva Schio!». È la città veneta dove nel luglio 1945 la polizia partigiana rossa ha occupato il carcere e ammazzato cinquantatré persone.
Aldo Cazzullo e io restiamo al nostro posto e mandiamo al diavolo il capo del gruppo che pretende di leggere un volantino interminabile. A quel punto, la gente in sala comincia a scandire «Libertà, libertà!». I violenti si rendono conto di essere in minoranza e due poliziotti li allontanano. Si saprà dopo che appartengono a una fazione di ultrà rossi, «Antifascist Militant». Sono tipi senza faccia, sconosciuti. Tranne uno che si rivela tre mesi dopo in un convegno antifascista a Roma, organizzato da Rifondazione comunista. È Simone Sallusti, responsabile organizzativo del partito nella capitale. Rivolto ai compagni, si presenta e dice: «Sono andato a Reggio Emilia per contestare Pansa. E ne sono orgoglioso!». Applausi e pugni chiusi. Adesso siamo al 17 ottobre. La faccenda di Reggio sta su molti quotidiani e nei telegiornali. Nel pomeriggio ricevo qualche telefonata di solidarietà. Ma soltanto di politici moderati, ricordo Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella. Tuttavia, verso sera arriva il messaggio più importante. Giorgio Napolitano, da pochi mesi presidente della Repubblica, con un comunicato del Quirinale, esprime «la sua profonda deplorazione per gli atti di violenza» a Reggio Emilia.
Soltanto dopo il suo intervento, spuntano un paio di telefonate da sinistra, di Prodi e di Piero Fassino. Chiamate personali e riservate, niente di pubblico perché a sinistra il Pansa è considerato un diffamatore della Resistenza. Per ultima si fa viva una redattrice della Stampa, Egle Santolini. Su incarico della direzione, mi avvisa che l’indomani troverò sul loro giornale due articoli che mi riguardano. Mi consiglia: «Li legga con calma». Li leggo il 18 ottobre. Alla Stampa, dove ho lavorato per anni, devo avere qualche amico del giaguaro. Entrambi i pezzi sono contro di me, con una rabbia speciale. Un articolo del professor Angelo d’Orsi e un’intervista, manco a dirlo, di Giorgio Bocca. Il professore ricicla un suo vecchio articolo, con l’aggiunta di un falso. Lui descrive l’aggressione di Reggio Emilia così: «Insulti e baruffe tra giovani di sinistra che contestavano Pansa e giovani di destra che ne prendevano le parti».
Sempre il 18 ottobre, mi telefona uno dei vicedirettori della Stampa, Massimo Gramellini, la cosiddetta penna brillante del giornale. Un pennacchione giulivo che si ritiene di sinistra. Con ilare cautela, mi chiede se voglio rispondere, ma lo mando a quel paese. Subito dopo mi chiama il direttore, Giulio Anselmi. Ci conosciamo da anni. E abbiamo lavorato insieme all’Espresso. Anselmi deve essersi reso conto di aver pubblicato una carognata. Si lava subito le mani e mi indica come bersaglio il suo vice: «Guarda che quella pagina l’ha messa insieme Gramellini. Ha fatto tutto lui ed è lui che devi ringraziare, non è colpa mia». Gli ribatto: «Ma il direttore non sei tu?». Anselmi: «Io non potevo farci nulla». Penso: misteri del giornalismo italiano, con troppi direttori senza autorità.
L’assalto di Reggio fa scuola. Il 19 ottobre devo presentare il libro a Bassano del Grappa. Ma nella notte, gli ultrà rossi hanno sabotato le serrature dei tre ingressi della libreria. Ci vuole un lavoro di tre ore per sbloccarle. Riesco a fare il dibattito, mentre in strada urlano dei giovanotti che pretendono di entrare e leggere un documento contro di me. Dopo Bassano, parlo in altre due città venete, Castelfranco e Carmignano di Brenta. E mi rendo conto di avere addosso l’Anpi, il club dei partigiani rossi, e le solite bande di ultrà. Ma ormai sono protetto dalla polizia e dai carabinieri. Il capo della Digos di Padova mi spiega che dovunque troverò le medesime ostilità. Aggiunge: «Li conosciamo, lei deve stare tranquillo perché sarà sempre tutelato dalle forze dell’ordine».
Presentare un libro scortato da agenti e carabinieri? La faccenda non mi piace per niente. Mi amareggia e mi obbliga a domandarmi perché mai debba sottrarre a compiti ben più importanti tanti ragazzi in divisa. È in quel momento che decido di annullare quattordici dibattiti dei trenta già previsti. Lo faccio pensando: «Credevo di essere un cittadino libero in un paese libero, ma devo arrendermi: non è per niente così».
Da allora sono trascorsi cinque anni e non ho più presentato in pubblico i miei libri. Mi sono reso conto che questa rinuncia non ha influenza sulla diffusione, però mi sento dimezzato. Lo stesso accade a tanti autori di destra. E oggi anche a eccellenze di sinistra, come Giancarlo Caselli. La ruota è girata, ma il risultato è sempre un brutto affare. Signor procuratore capo di Torino, ci rifletta. Smetta di fare la vittima. Gioverà a lei e a tutti noi.
di Giampaolo Pansa
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Pansa Caselli viene contestato e si lamenta Gli spiego che significa affrontare i violenti
Gli estremisti contro il magistrato, così come accade a decine di autori come il sottoscritto. Ecco perché lui rischia di diventare ridicolo
Pansa Caselli viene contestato e si lamenta Gli spiego che significa affrontare i violenti
liberoquotidiano.it
Diventare un uomo ridicolo. Dopo aver tanto lottato contro terroristi e mafiosi, è questo il rischio che corre Giancarlo Caselli, super magistrato e capo della Procura di Torino. Lo corre per un motivo sciocco: considerarsi l’unica vittima di estremisti violenti che contestano i suoi libri e il suo lavoro. Caselli dimentica di essere soltanto l’ultimo dei tanti costretti a fare la stessa esperienza. E adesso gli racconterò il mio caso. Nel 2003 pubblico Il sangue dei vinti, libro che racconta le vendette dei partigiani dopo il 25 aprile, contro i fascisti sconfitti. Nasce un trambusto pazzesco sui giornali e alla tivù. Vecchi amici di sinistra mi accusano di averlo scritto per soldi e su ordine di Silvio Berlusconi, in quel momento al governo. Ma la piazza, o la piazzetta, non si muove. Deve assalire il Caimano e non ha tempo da perdere con un microbo come me. Continuo a scrivere libri revisionisti sulla guerra civile e nell’ottobre 2006 esce La grande bugia. La stagione politica è cambiata. Adesso al governo c’è il secondo centrosinistra di Romano Prodi. Il Cavaliere è sconfitto e può essere lasciato in pace. L’attenzione si sposta sul microbo Pansa. Un testardo che si merita una bella lezione. Il 16 ottobre 2006 si tiene a Reggio Emilia il primo di una serie di dibattiti su quel libro. Il salone di un hotel della città è strapieno. A dialogare con me c’è Aldo Cazzullo, giornalista, inviato speciale del Corriere della sera. Sto per rispondere alla sua domanda iniziale quando nella sala, tra la gente, emerge una dozzina di violenti. Vogliono interrompere la serata e punirmi.
Il capo del gruppo corre verso il nostro tavolo e mi scaglia addosso una copia della Grande bugia, urlando: «È un libro infame, sono venuto da Roma apposta per gettarglielo in faccia!». Segue un lancio di volantini stampati con cura. Riproducono una banconota da 50 euro con la scritta: «Pansa prezzolato - con l’infamia ci hai speculato». Arrivato alla nostra pedana, il gruppo srotola un lenzuolo color sangue, con lo slogan «Triangolo rosso? Nessun rimorso». Come a dire, i partigiani comunisti hanno fatto bene ad accoppare tanti nemici della rivoluzione. I violenti sono molto agitati. Urlano da forsennati. Mostrano al pubblico il pugno chiuso. Uno di loro strilla di continuo, a macchinetta: «Viva Schio! Viva Schio!». È la città veneta dove nel luglio 1945 la polizia partigiana rossa ha occupato il carcere e ammazzato cinquantatré persone.
Aldo Cazzullo e io restiamo al nostro posto e mandiamo al diavolo il capo del gruppo che pretende di leggere un volantino interminabile. A quel punto, la gente in sala comincia a scandire «Libertà, libertà!». I violenti si rendono conto di essere in minoranza e due poliziotti li allontanano. Si saprà dopo che appartengono a una fazione di ultrà rossi, «Antifascist Militant». Sono tipi senza faccia, sconosciuti. Tranne uno che si rivela tre mesi dopo in un convegno antifascista a Roma, organizzato da Rifondazione comunista. È Simone Sallusti, responsabile organizzativo del partito nella capitale. Rivolto ai compagni, si presenta e dice: «Sono andato a Reggio Emilia per contestare Pansa. E ne sono orgoglioso!». Applausi e pugni chiusi. Adesso siamo al 17 ottobre. La faccenda di Reggio sta su molti quotidiani e nei telegiornali. Nel pomeriggio ricevo qualche telefonata di solidarietà. Ma soltanto di politici moderati, ricordo Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella. Tuttavia, verso sera arriva il messaggio più importante. Giorgio Napolitano, da pochi mesi presidente della Repubblica, con un comunicato del Quirinale, esprime «la sua profonda deplorazione per gli atti di violenza» a Reggio Emilia.
Soltanto dopo il suo intervento, spuntano un paio di telefonate da sinistra, di Prodi e di Piero Fassino. Chiamate personali e riservate, niente di pubblico perché a sinistra il Pansa è considerato un diffamatore della Resistenza. Per ultima si fa viva una redattrice della Stampa, Egle Santolini. Su incarico della direzione, mi avvisa che l’indomani troverò sul loro giornale due articoli che mi riguardano. Mi consiglia: «Li legga con calma». Li leggo il 18 ottobre. Alla Stampa, dove ho lavorato per anni, devo avere qualche amico del giaguaro. Entrambi i pezzi sono contro di me, con una rabbia speciale. Un articolo del professor Angelo d’Orsi e un’intervista, manco a dirlo, di Giorgio Bocca. Il professore ricicla un suo vecchio articolo, con l’aggiunta di un falso. Lui descrive l’aggressione di Reggio Emilia così: «Insulti e baruffe tra giovani di sinistra che contestavano Pansa e giovani di destra che ne prendevano le parti».
Sempre il 18 ottobre, mi telefona uno dei vicedirettori della Stampa, Massimo Gramellini, la cosiddetta penna brillante del giornale. Un pennacchione giulivo che si ritiene di sinistra. Con ilare cautela, mi chiede se voglio rispondere, ma lo mando a quel paese. Subito dopo mi chiama il direttore, Giulio Anselmi. Ci conosciamo da anni. E abbiamo lavorato insieme all’Espresso. Anselmi deve essersi reso conto di aver pubblicato una carognata. Si lava subito le mani e mi indica come bersaglio il suo vice: «Guarda che quella pagina l’ha messa insieme Gramellini. Ha fatto tutto lui ed è lui che devi ringraziare, non è colpa mia». Gli ribatto: «Ma il direttore non sei tu?». Anselmi: «Io non potevo farci nulla». Penso: misteri del giornalismo italiano, con troppi direttori senza autorità.
L’assalto di Reggio fa scuola. Il 19 ottobre devo presentare il libro a Bassano del Grappa. Ma nella notte, gli ultrà rossi hanno sabotato le serrature dei tre ingressi della libreria. Ci vuole un lavoro di tre ore per sbloccarle. Riesco a fare il dibattito, mentre in strada urlano dei giovanotti che pretendono di entrare e leggere un documento contro di me. Dopo Bassano, parlo in altre due città venete, Castelfranco e Carmignano di Brenta. E mi rendo conto di avere addosso l’Anpi, il club dei partigiani rossi, e le solite bande di ultrà. Ma ormai sono protetto dalla polizia e dai carabinieri. Il capo della Digos di Padova mi spiega che dovunque troverò le medesime ostilità. Aggiunge: «Li conosciamo, lei deve stare tranquillo perché sarà sempre tutelato dalle forze dell’ordine».
Presentare un libro scortato da agenti e carabinieri? La faccenda non mi piace per niente. Mi amareggia e mi obbliga a domandarmi perché mai debba sottrarre a compiti ben più importanti tanti ragazzi in divisa. È in quel momento che decido di annullare quattordici dibattiti dei trenta già previsti. Lo faccio pensando: «Credevo di essere un cittadino libero in un paese libero, ma devo arrendermi: non è per niente così».
Da allora sono trascorsi cinque anni e non ho più presentato in pubblico i miei libri. Mi sono reso conto che questa rinuncia non ha influenza sulla diffusione, però mi sento dimezzato. Lo stesso accade a tanti autori di destra. E oggi anche a eccellenze di sinistra, come Giancarlo Caselli. La ruota è girata, ma il risultato è sempre un brutto affare. Signor procuratore capo di Torino, ci rifletta. Smetta di fare la vittima. Gioverà a lei e a tutti noi.
di Giampaolo Pansa
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domenica 5 febbraio 2012
Riflessioni attorno alla nevicata | Giulietto Chiesa | Il Fatto Quotidiano
Riflessioni attorno alla nevicata | Giulietto Chiesa | Il Fatto Quotidiano:
Marco Demmini Moderatore 34 minuti fa in risposta a Aililrem
Caro amico, ma bisogna proprio spiegarti tutto!
Dove risiede adesso Monti? A Roma o in Calabria? Nella capitale o nella Basilicata?
Come tu ben sai, Monti è stato messo al potere da Bilderberg (alla quale appartiene anche Emma Bonino, una delle più malvage e spietate dispensatrici di terrore e morte, una che al suo confronto Crudelia Demon sembra Mary Poppins) al fine di distruggere l'Italia e tutta l'area mediterranea.
Ecco, lo spread stava scendendo troppo. Monti stava sgarrando gli ordini precisi di Goldamn Sachs, Trilaterale, CIA, Mossad, e probabilmente anche l'Arcigay.
Per questo è stato punito dalla grande finanza che controlla le nevicate garzie alle scie chimiche.
Mi sembra chiaro, semplice, inoppugnabile.
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Marco Demmini Moderatore 34 minuti fa in risposta a Aililrem
Caro amico, ma bisogna proprio spiegarti tutto!
Dove risiede adesso Monti? A Roma o in Calabria? Nella capitale o nella Basilicata?
Come tu ben sai, Monti è stato messo al potere da Bilderberg (alla quale appartiene anche Emma Bonino, una delle più malvage e spietate dispensatrici di terrore e morte, una che al suo confronto Crudelia Demon sembra Mary Poppins) al fine di distruggere l'Italia e tutta l'area mediterranea.
Ecco, lo spread stava scendendo troppo. Monti stava sgarrando gli ordini precisi di Goldamn Sachs, Trilaterale, CIA, Mossad, e probabilmente anche l'Arcigay.
Per questo è stato punito dalla grande finanza che controlla le nevicate garzie alle scie chimiche.
Mi sembra chiaro, semplice, inoppugnabile.
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Alcuni numeri sulla tragedia greca - AgoraVox Italia
Alcuni numeri sulla tragedia greca - AgoraVox Italia: La Grecia rimane il Paese con la più alta evasione fiscale al mondo. Basti ricordare il caso tragicomico delle piscine in Atene: 324 secondo il fisco, 16974 secondo una ricerca del settimanale der Spiegel. Alcuni numeri: la Grecia produce il 2,7% del PIL europeo e lo 0,3% di quello mondiale. Prima della crisi, il Paese era al 40esimo posto per reddito pro capite. Solo ottantacinque persone dichiaravano un reddito superiore a 500.000 euro e solo sei ne dichiaravano uno superiore al milione. Dati non verosimili, che fanno a pugni con quelli (autentici) di un Paese sacrificato sull'altare dell'eurocrazia.
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I greci non cedono al ricatto della Merkel che ha detto che sono fannulloni.... Vogliono il referendum per? - Yahoo! Answers
I greci non cedono al ricatto della Merkel che ha detto che sono fannulloni.... Vogliono il referendum per? - Yahoo! Answers: Bè..non è che hanno tutta questa gran fama di lavoratori...
fino all altro giorno la popolazione ha avuto grossi aiuti da parte dello stato (per es. -correggetemi se sbaglio- so che TUTTI gli studenti avevano libri gratis dalle elementari fino all università e in più una volta usciti se non trovavano lavoro percepivano da subito l assegno di disoccupazione).
Oltre a queste agevolazioni in molti ci hanno mangiato sopra (in primis i politici ovviamente)...
non mi stupisco se ora sono con le gambe all aria.. lì c è bisogno di grosse riforme..
e forse uscire dall euro potrebbe essere l inizio di una soluzione..
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fino all altro giorno la popolazione ha avuto grossi aiuti da parte dello stato (per es. -correggetemi se sbaglio- so che TUTTI gli studenti avevano libri gratis dalle elementari fino all università e in più una volta usciti se non trovavano lavoro percepivano da subito l assegno di disoccupazione).
Oltre a queste agevolazioni in molti ci hanno mangiato sopra (in primis i politici ovviamente)...
non mi stupisco se ora sono con le gambe all aria.. lì c è bisogno di grosse riforme..
e forse uscire dall euro potrebbe essere l inizio di una soluzione..
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The Mote in God's Eye: I Greci peggio dei nostri fannulloni?
The Mote in God's Eye: I Greci peggio dei nostri fannulloni?: I Greci peggio dei nostri fannulloni?
Ecco Altri dettagli sugli sperperi greci (HT La pulce di Voltaire). Paolo si stupisce, ma buona parte di questi comportamenti sono simili a quelli italiani dei bei tempi consociativi andati.
•Gli stipendi dei dipendenti pubblici rappresentano il 40% del pil. Questo sarà il primo settore in cui tagliare drasticamente. in alcuni settori, oltre alla tredicesima e quattordicesima, ci sono bonus e premi ridicoli. uno fra tutti: il bonus per chi arriva puntuale al lavoro;
•alcuni extra hanno poi dell'assurdo. i forestali per esempio ricevono un'indennità per lavoro all'aria aperta. ma forse la più clamorosa è la questione delle "zitelle d'oro": le figlie nubili dei dipendenti pubblici hanno diritto a una pensione ereditaria di mille euro al mese. sono 40mila e costano allo stato 550 milioni l'anno;
•per non parlare poi delle pensioni anticipate, fissate a 50 anni per le donne e 55 per gli uomini. Sono previste per 600 categorie ritenute usuranti, tra cui spiccano i parrucchieri, per i danni derivati dalle tinte, i musicisti che suonano uno strumento a fiato, i presentatori televisivi, per gli effetti nocivi dei microfoni sulla salute;
•gli enti inutili non si contano. il più clamoroso è quello per la salvaguardia del lago Kopais, un lago che si è prosciugato nel 1930. (da
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Ecco Altri dettagli sugli sperperi greci (HT La pulce di Voltaire). Paolo si stupisce, ma buona parte di questi comportamenti sono simili a quelli italiani dei bei tempi consociativi andati.
•Gli stipendi dei dipendenti pubblici rappresentano il 40% del pil. Questo sarà il primo settore in cui tagliare drasticamente. in alcuni settori, oltre alla tredicesima e quattordicesima, ci sono bonus e premi ridicoli. uno fra tutti: il bonus per chi arriva puntuale al lavoro;
•alcuni extra hanno poi dell'assurdo. i forestali per esempio ricevono un'indennità per lavoro all'aria aperta. ma forse la più clamorosa è la questione delle "zitelle d'oro": le figlie nubili dei dipendenti pubblici hanno diritto a una pensione ereditaria di mille euro al mese. sono 40mila e costano allo stato 550 milioni l'anno;
•per non parlare poi delle pensioni anticipate, fissate a 50 anni per le donne e 55 per gli uomini. Sono previste per 600 categorie ritenute usuranti, tra cui spiccano i parrucchieri, per i danni derivati dalle tinte, i musicisti che suonano uno strumento a fiato, i presentatori televisivi, per gli effetti nocivi dei microfoni sulla salute;
•gli enti inutili non si contano. il più clamoroso è quello per la salvaguardia del lago Kopais, un lago che si è prosciugato nel 1930. (da
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L’autostrada rossa e la falsa superiorità del Partito democratico - Interni - ilGiornale.it
L’autostrada rossa e la falsa superiorità del Partito democratico - Interni - ilGiornale.it: L’autostrada rossa e la falsa superiorità del Partito democratico
Tangentopoli in Veneto: l’arresto del manager Brentan ennesimo colpo al partito dei moralisti
di Stefano Zecchi - 05 febbraio 2012, 10:10
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Alla superiorità morale della sinistra ci credono ormai soltanto gli intellettuali alla moda, docenti universitari politicamente corretti, conduttori televisivi dallo share terremotato.
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Tutti quelli, insomma, e non sono pochi, che devono avere un nemico politico da abbattere per risolvere i propri problemi di identità: prima i fascisti, intesi come categoria generica della bassezza umana, poi i berlusconiani, eredi di quella categoria generica. Ad avere qualche difficoltà ad ammettere la superiorità morale della sinistra sono però i politici di riferimento di quegli integerrimi intellettuali, professori, conduttori.
Chissà, forse il segretario del Pd non è fortunato, perché da qualche tempo i suoi uomini, da Penati a Tedesco, da Lusi a Brentan, hanno problemi coi soldi, nel senso che si sono messi in tasca quattrini di altri. Insomma, secondo l’accusa, corrotti e corruttori, per cui la difesa della superiorità morale della sinistra sembra sia meglio affidarla agli «utili idioti», come diceva Stalin.
Ma chi è Brentan? L’uomo è stato arrestato dalla Guardia di finanza di Venezia e ora sta facendo tremare i palazzi della politica veneziana di sinistra. Lino Brentan, amministratore delegato dell’Autostrada Venezia-Padova e consigliere di amministrazione di altre società tra cui Veneto Strade, è stato accusato di aver affidato opere pubbliche a trattativa privata sempre agli stessi imprenditori amici in cambio di denaro e di aver illegittimamente frazionato l’importo dei vari appalti in modo da evitare di bandire una gara pubblica «violando i principi di imparzialità e buona amministrazione».
Al posto di amministratore delegato della Venezia-Padova, Brentan è stato messo dal Pd veneziano, e su quella sedia è stato imbullonato per la bellezza di quindici anni. A sentire i responsabili del Pd, sembra ascoltare i genitori del figlio che ha commesso un grave reato: «Non può essere stato lui; lo conosco bene». Stupore, sbigottimento di chi nella direzione del Pd lo conosceva bene, pensando che il Brentan, considerato un «tecnico che sa le ragioni della politica», fosse disposto a mettere in secondo piano le questioni della buona amministrazione per non tradire le esigenze della politica, ma non di far valere i propri interessi personali trascurando quelli della politica.
Nel Pdl Brentan ha avuto, però, un grande accusatore (rimasto inascoltato e poi querelato), nel consigliere comunale Renato Boraso, ora esponente di spicco della lista civica «Impegno per Venezia». D’altra parte, chi nel centrodestra berlusconiano, che ha il marchio dell’immoralità, avrebbe potuto criticare la superiorità morale di un uomo come il Brentan con un pedigree tutto comunista da far invidia ai giovanotti dirigenti del Pd veneziano che, purtroppo per loro, non hanno fatto in tempo a iscriversi al Pci?
Il bravo comunista amministratore delegato, da 350mila euro di stipendio annuo, è stato un ex operaio delle Leghe Leggere, ha fatto carriera all’ombra della Cgil, assessore nel suo paese, quel Campolongo Maggiore noto per aver dato i natali al boss Felice Maniero (quello della banda del Brenta), assessore ai lavori pubblici della Provincia di Venezia. I suoi amici che, appunto, lo conoscono bene e si stupiscono, dicono di lui che è svelto e furbo: è riuscito a diventare Cavaliere al merito della Repubblica, onorificenza consegnatagli da Giorgio Napolitano per i progetti importanti eseguiti sulle strade del veneto.
Dopo che la giunta di sinistra che ha guidato la Provincia di Venezia è stata sconfitta nelle ultime elezioni da Pdl e Lega, il Brentan si era trovato in difficoltà a far girare i propri affari.
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Ai suoi amici preoccupati di non riuscire ad avere più i facili appalti che avevano quando la giunta della Provincia era di sinistra, Brentan avrebbe detto che i nuovi amministratori «sono crudini, ma possiamo farcela». Non ce l’ha fatta: la superiorità morale della sinistra non ha trionfato sugli immorali di centrodestra.
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Tangentopoli in Veneto: l’arresto del manager Brentan ennesimo colpo al partito dei moralisti
di Stefano Zecchi - 05 febbraio 2012, 10:10
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Alla superiorità morale della sinistra ci credono ormai soltanto gli intellettuali alla moda, docenti universitari politicamente corretti, conduttori televisivi dallo share terremotato.
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Tutti quelli, insomma, e non sono pochi, che devono avere un nemico politico da abbattere per risolvere i propri problemi di identità: prima i fascisti, intesi come categoria generica della bassezza umana, poi i berlusconiani, eredi di quella categoria generica. Ad avere qualche difficoltà ad ammettere la superiorità morale della sinistra sono però i politici di riferimento di quegli integerrimi intellettuali, professori, conduttori.
Chissà, forse il segretario del Pd non è fortunato, perché da qualche tempo i suoi uomini, da Penati a Tedesco, da Lusi a Brentan, hanno problemi coi soldi, nel senso che si sono messi in tasca quattrini di altri. Insomma, secondo l’accusa, corrotti e corruttori, per cui la difesa della superiorità morale della sinistra sembra sia meglio affidarla agli «utili idioti», come diceva Stalin.
Ma chi è Brentan? L’uomo è stato arrestato dalla Guardia di finanza di Venezia e ora sta facendo tremare i palazzi della politica veneziana di sinistra. Lino Brentan, amministratore delegato dell’Autostrada Venezia-Padova e consigliere di amministrazione di altre società tra cui Veneto Strade, è stato accusato di aver affidato opere pubbliche a trattativa privata sempre agli stessi imprenditori amici in cambio di denaro e di aver illegittimamente frazionato l’importo dei vari appalti in modo da evitare di bandire una gara pubblica «violando i principi di imparzialità e buona amministrazione».
Al posto di amministratore delegato della Venezia-Padova, Brentan è stato messo dal Pd veneziano, e su quella sedia è stato imbullonato per la bellezza di quindici anni. A sentire i responsabili del Pd, sembra ascoltare i genitori del figlio che ha commesso un grave reato: «Non può essere stato lui; lo conosco bene». Stupore, sbigottimento di chi nella direzione del Pd lo conosceva bene, pensando che il Brentan, considerato un «tecnico che sa le ragioni della politica», fosse disposto a mettere in secondo piano le questioni della buona amministrazione per non tradire le esigenze della politica, ma non di far valere i propri interessi personali trascurando quelli della politica.
Nel Pdl Brentan ha avuto, però, un grande accusatore (rimasto inascoltato e poi querelato), nel consigliere comunale Renato Boraso, ora esponente di spicco della lista civica «Impegno per Venezia». D’altra parte, chi nel centrodestra berlusconiano, che ha il marchio dell’immoralità, avrebbe potuto criticare la superiorità morale di un uomo come il Brentan con un pedigree tutto comunista da far invidia ai giovanotti dirigenti del Pd veneziano che, purtroppo per loro, non hanno fatto in tempo a iscriversi al Pci?
Il bravo comunista amministratore delegato, da 350mila euro di stipendio annuo, è stato un ex operaio delle Leghe Leggere, ha fatto carriera all’ombra della Cgil, assessore nel suo paese, quel Campolongo Maggiore noto per aver dato i natali al boss Felice Maniero (quello della banda del Brenta), assessore ai lavori pubblici della Provincia di Venezia. I suoi amici che, appunto, lo conoscono bene e si stupiscono, dicono di lui che è svelto e furbo: è riuscito a diventare Cavaliere al merito della Repubblica, onorificenza consegnatagli da Giorgio Napolitano per i progetti importanti eseguiti sulle strade del veneto.
Dopo che la giunta di sinistra che ha guidato la Provincia di Venezia è stata sconfitta nelle ultime elezioni da Pdl e Lega, il Brentan si era trovato in difficoltà a far girare i propri affari.
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Ai suoi amici preoccupati di non riuscire ad avere più i facili appalti che avevano quando la giunta della Provincia era di sinistra, Brentan avrebbe detto che i nuovi amministratori «sono crudini, ma possiamo farcela». Non ce l’ha fatta: la superiorità morale della sinistra non ha trionfato sugli immorali di centrodestra.
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I «conti paralleli» di Lusi «Ecco come riuscì a eludere i controlli» - Corriere.it
I «conti paralleli» di Lusi «Ecco come riuscì a eludere i controlli» - Corriere.it: I «conti paralleli» di Lusi
«Ecco come riuscì a eludere i controlli»
Lite tra gli ex Margherita sul sì «unanime» ai bilanci
I pm indagano su Lusi, ma vogliono capire perché nessuno si accorse di quelle ruberie
I «conti paralleli» di Lusi
«Ecco come riuscì a eludere i controlli»
Lite tra gli ex Margherita sul sì «unanime» ai bilanci
Luigi Lusi (Ansa)Luigi Lusi (Ansa)
ROMA - Per cercare di sfuggire ai controlli, il senatore Luigi Lusi avrebbe creato una contabilità parallela. Un doppio bilancio che adesso potrebbe far scattare nei suoi confronti l'accusa di falso, oltre a quella già contestata di appropriazione indebita. Anche perché le fatture emesse non sarebbero state registrate con la giusta corrispondenza, ma «archiviate» come prestazioni diverse da quelle reali. E quindi senza menzionare quelle finte consulenze da milioni di euro che il tesoriere della Margherita, poi transitato nel Partito democratico, aveva affidato alla sua società «TTT» riuscendo così ad accumulare tredici milioni in tre anni.
Le verifiche estere
Una relazione che ricostruisce queste movimentazioni è stata preparata dai consulenti della Margherita e potrebbe essere consegnata ai magistrati, come anticipa l'avvocato Titta Madia che cura gli interessi dei vertici dell'ex partito, il presidente Francesco Rutelli e il presidente dell'Assemblea Enzo Bianco. Il resto dovranno farlo gli accertamenti della Guardia di Finanza, delegata ad acquisire l'intera documentazione contabile negli uffici di «Democrazia e libertà». L'obiettivo dei pubblici ministeri rimane quello di accertare se ci siano altri reati commessi da Lusi, ma anche stabilire come mai nessuno si sia accorto di queste ruberie. E soprattutto se anche altri politici possano aver goduto dei favori del tesoriere.
È vero che, secondo i primi controlli, la Margherita era l'unico cliente della «TTT», ma a questo punto bisognerà verificare se Lusi abbia utilizzato altre società per la gestione dei fondi e per la loro esportazione all'estero. Oltre alla «Luigia Ltd», di dominio canadese, fra i beneficiari dei suoi bonifici risulta infatti anche uno studio di architettura di Toronto riconducibile alla famiglia della moglie, che potrebbe essere stato usato come veicolo per l'occultamento dei beni.
I bonifici multipli
Il mistero più grande continua comunque a riguardare il ruolo dei Revisori e quello della commissione di Tesoreria che mai hanno notato «uscite» irregolari e hanno stilato relazioni favorevoli all'approvazione, nonostante molti esponenti avessero avanzato dubbi sulla gestione finanziaria di Lusi e il conto corrente fosse passato in meno di tre anni da un saldo di 20 milioni a poco meno di 7. Eppure si trattava - per la maggior parte - di denaro proveniente dai rimborsi elettorali, con alcuni fondi transitati dal Pd. Nonostante questo i rendiconti 2009 e 2010 sono stati convalidati, così come il preventivo relativo al 2011. Le prime verifiche avrebbero consentito di scoprire che Lusi aveva di fatto creato un doppio binario contabile. Per fare un esempio: un'uscita da decine di migliaia di euro verso la sua società sarebbe stata registrata come «spese manifesti» e dunque in maniera da non destare sospetto.
Il tesoriere avrebbe trovato un escamotage anche per occultare quei 90 bonifici - tutti disposti senza superare la soglia di tracciabilità - che gli hanno consentito il trasferimento di fondi dal partito alle proprie disponibilità. Nella «causale» avrebbe infatti inserito la voce «bonifico multiplo» senza ulteriori indicazioni. Lusi era certamente molto esperto nella gestione finanziaria e probabilmente - come sta dimostrando l'inchiesta - molto «creativo». Ma questo non basta al procuratore aggiunto Alberto Caperna e al sostituto Stefano Pesci per escludere che in questa vicenda possano esserci altri responsabili. Anche perché con il trascorrere dei giorni diventa sempre più fitto il mistero sull'approvazione dei rendiconti.
Il voto compatto
È Arturo Parisi - che si era dimesso dall'Assemblea proprio «per mancanza di chiarezza sulla gestione finanziaria» - a manifestare prima pubblicamente, e poi davanti ai magistrati, i propri dubbi sulla regolarità delle procedure per l'approvazione dei rendiconti. «All'ultima assemblea del 20 giugno scorso - ha spiegato durante il suo interrogatorio - c'è stato il voto contrario di Luciano Neri, eppure il via libera è stato certificato all'unanimità». Ieri arriva il comunicato di smentita di Enzo Bianco che dichiara: «Durante l'assemblea nessuno sollevò dubbi di opacità del bilancio, né i revisori dei conti, né i componenti l'Assemblea. Poiché alcuni lamentarono di non avere potuto visionare tempestivamente la bozza predisposta, la seduta fu sospesa per consentire l'esame richiesto. Il bilancio fu poi, in serata, approvato, vistato dei prescritti pareri, all'unanimità dei presenti. Al momento del voto Neri era assente».
Una versione che il diretto interessato smentisce, e a questo punto è probabile che debbano essere i magistrati a scoprire chi stia mentendo. Afferma infatti Neri con una nota ufficiale: «Nel corso dell'Assemblea ci furono due soli interventi critici, il mio e quello molto netto e completo di Arturo Parisi. Ci fu un solo voto contrario, il mio, mentre Parisi non partecipò al voto. Noi ritenevamo che quelle risorse non ci appartenevano e dunque dovevano essere restituite alla società civile, gli altri erano convinti dovesse esserci una spartizione tra le diverse correnti del residuo attivo, magari utilizzando Fondazioni o Centri studi di riferimento. Ricordo che sulla discussione tra queste due concezioni Gentiloni, opportunamente, affermò che non poteva essere attivato un meccanismo da "spartizione del malloppo". Oggi si comprende meglio il perché della feroce opposizione alle nostre proposte: quelle risorse erano già state "impegnate"».
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«Ecco come riuscì a eludere i controlli»
Lite tra gli ex Margherita sul sì «unanime» ai bilanci
I pm indagano su Lusi, ma vogliono capire perché nessuno si accorse di quelle ruberie
I «conti paralleli» di Lusi
«Ecco come riuscì a eludere i controlli»
Lite tra gli ex Margherita sul sì «unanime» ai bilanci
Luigi Lusi (Ansa)Luigi Lusi (Ansa)
ROMA - Per cercare di sfuggire ai controlli, il senatore Luigi Lusi avrebbe creato una contabilità parallela. Un doppio bilancio che adesso potrebbe far scattare nei suoi confronti l'accusa di falso, oltre a quella già contestata di appropriazione indebita. Anche perché le fatture emesse non sarebbero state registrate con la giusta corrispondenza, ma «archiviate» come prestazioni diverse da quelle reali. E quindi senza menzionare quelle finte consulenze da milioni di euro che il tesoriere della Margherita, poi transitato nel Partito democratico, aveva affidato alla sua società «TTT» riuscendo così ad accumulare tredici milioni in tre anni.
Le verifiche estere
Una relazione che ricostruisce queste movimentazioni è stata preparata dai consulenti della Margherita e potrebbe essere consegnata ai magistrati, come anticipa l'avvocato Titta Madia che cura gli interessi dei vertici dell'ex partito, il presidente Francesco Rutelli e il presidente dell'Assemblea Enzo Bianco. Il resto dovranno farlo gli accertamenti della Guardia di Finanza, delegata ad acquisire l'intera documentazione contabile negli uffici di «Democrazia e libertà». L'obiettivo dei pubblici ministeri rimane quello di accertare se ci siano altri reati commessi da Lusi, ma anche stabilire come mai nessuno si sia accorto di queste ruberie. E soprattutto se anche altri politici possano aver goduto dei favori del tesoriere.
È vero che, secondo i primi controlli, la Margherita era l'unico cliente della «TTT», ma a questo punto bisognerà verificare se Lusi abbia utilizzato altre società per la gestione dei fondi e per la loro esportazione all'estero. Oltre alla «Luigia Ltd», di dominio canadese, fra i beneficiari dei suoi bonifici risulta infatti anche uno studio di architettura di Toronto riconducibile alla famiglia della moglie, che potrebbe essere stato usato come veicolo per l'occultamento dei beni.
I bonifici multipli
Il mistero più grande continua comunque a riguardare il ruolo dei Revisori e quello della commissione di Tesoreria che mai hanno notato «uscite» irregolari e hanno stilato relazioni favorevoli all'approvazione, nonostante molti esponenti avessero avanzato dubbi sulla gestione finanziaria di Lusi e il conto corrente fosse passato in meno di tre anni da un saldo di 20 milioni a poco meno di 7. Eppure si trattava - per la maggior parte - di denaro proveniente dai rimborsi elettorali, con alcuni fondi transitati dal Pd. Nonostante questo i rendiconti 2009 e 2010 sono stati convalidati, così come il preventivo relativo al 2011. Le prime verifiche avrebbero consentito di scoprire che Lusi aveva di fatto creato un doppio binario contabile. Per fare un esempio: un'uscita da decine di migliaia di euro verso la sua società sarebbe stata registrata come «spese manifesti» e dunque in maniera da non destare sospetto.
Il tesoriere avrebbe trovato un escamotage anche per occultare quei 90 bonifici - tutti disposti senza superare la soglia di tracciabilità - che gli hanno consentito il trasferimento di fondi dal partito alle proprie disponibilità. Nella «causale» avrebbe infatti inserito la voce «bonifico multiplo» senza ulteriori indicazioni. Lusi era certamente molto esperto nella gestione finanziaria e probabilmente - come sta dimostrando l'inchiesta - molto «creativo». Ma questo non basta al procuratore aggiunto Alberto Caperna e al sostituto Stefano Pesci per escludere che in questa vicenda possano esserci altri responsabili. Anche perché con il trascorrere dei giorni diventa sempre più fitto il mistero sull'approvazione dei rendiconti.
Il voto compatto
È Arturo Parisi - che si era dimesso dall'Assemblea proprio «per mancanza di chiarezza sulla gestione finanziaria» - a manifestare prima pubblicamente, e poi davanti ai magistrati, i propri dubbi sulla regolarità delle procedure per l'approvazione dei rendiconti. «All'ultima assemblea del 20 giugno scorso - ha spiegato durante il suo interrogatorio - c'è stato il voto contrario di Luciano Neri, eppure il via libera è stato certificato all'unanimità». Ieri arriva il comunicato di smentita di Enzo Bianco che dichiara: «Durante l'assemblea nessuno sollevò dubbi di opacità del bilancio, né i revisori dei conti, né i componenti l'Assemblea. Poiché alcuni lamentarono di non avere potuto visionare tempestivamente la bozza predisposta, la seduta fu sospesa per consentire l'esame richiesto. Il bilancio fu poi, in serata, approvato, vistato dei prescritti pareri, all'unanimità dei presenti. Al momento del voto Neri era assente».
Una versione che il diretto interessato smentisce, e a questo punto è probabile che debbano essere i magistrati a scoprire chi stia mentendo. Afferma infatti Neri con una nota ufficiale: «Nel corso dell'Assemblea ci furono due soli interventi critici, il mio e quello molto netto e completo di Arturo Parisi. Ci fu un solo voto contrario, il mio, mentre Parisi non partecipò al voto. Noi ritenevamo che quelle risorse non ci appartenevano e dunque dovevano essere restituite alla società civile, gli altri erano convinti dovesse esserci una spartizione tra le diverse correnti del residuo attivo, magari utilizzando Fondazioni o Centri studi di riferimento. Ricordo che sulla discussione tra queste due concezioni Gentiloni, opportunamente, affermò che non poteva essere attivato un meccanismo da "spartizione del malloppo". Oggi si comprende meglio il perché della feroce opposizione alle nostre proposte: quelle risorse erano già state "impegnate"».
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Botte e minacce tra giudici dietro la guerra contro il Cav - Interni - ilGiornale.it
Botte e minacce tra giudici dietro la guerra contro il Cav - Interni - ilGiornale.it: Botte e minacce tra giudici dietro la guerra contro il Cav
Al Csm la lite tra due toghe porta alla luce particolari inquietanti sul caso Agcom-Annozero Un magistrato di Trani: «La gip mi disse che Berlusconi è un dittatore, lo faranno cadere»
di Gian Marco Chiocci - 05 febbraio 2012, 10:55
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dal nostro inviato a Trani
Quando le toghe trescano e inforcano i guantoni pensando a Berlusconi come a un dittatore. Ha dell’incredibile la relazione tra due magistrati sfociata in pestaggi, volti sfregiati, minacce, appostamenti sotto casa, rocamboleschi pedinamenti, irripetibili ingiurie telefoniche, denunce e controdenunce, coinvolgimenti di ufficiali dei carabinieri, persino filmini hard.
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La storia che a Trani è finita a cazzotti e carte bollate ha incidentalmente portato alla luce inquietanti collegamenti con la nota inchiesta Agcom, quella delle intercettazioni selvagge dell’ex premier Silvio Berlusconi.
Emergerebbero, infatti, retroscena tali da riscrivere la genesi dell’inchiesta del pm di Trani, Michele Ruggiero, finito lui stesso sott’inchiesta al Csm per aver nascosto parte dell’indagine su Berlusconi al procuratore capo di Trani, Carlo Maria Capristo. Per addentrarci in questo ginepraio occorre rifarsi all’ordinanza 163/2011 con la quale la sezione disciplinare del Csm dispone il trasferimento da Trani al tribunale di Matera del gip Maria Grazia Caserta. Nella decisione dell’ottobre scorso si fa presente che il procuratore generale della suprema corte di Cassazione, letti gli atti, ha chiesto la sospensione cautelare delle funzioni e dallo stipendio e il collocamento fuori ruolo organico della dottoressa Caserta. In subordine, il trasferimento d’ufficio, opzione poi scelta dal Csm che la manderà in provincia di Matera dopo aver fatto presente che la gip è indagata a Lecce e che «vi sono serie ragioni per ipotizzare, con ragionevole fondatezza, la sussistenza di fatti posti a fondamento dell’azione disciplinare» posto che «le condotte contestate appaiono (...) sintomatiche di una carenza di equilibrio». Come dire: un gip con poco equilibrio non può stare a Trani, ma può benissimo esercitare a Matera. Nelle motivazioni si parla di una relazione «caratterizzata da atteggiamenti violenti e minacciosi» della gip che «hanno creato disdoro per l’immagine della magistratura» in quel di Trani, dove la storia era divenuta pubblica attraverso un esposto anonimo.
«La verosimiglianza e la credibilità delle prospettazioni accusatorie – continua il dispositivo - sono provate anche dalla documentazione in atti e in particolare dai certificati medici da cui si evincono le lesioni (riportate da Nardi, ndr) di cui alle incolpazioni» e ancora «dal tenore e dal contenuto degli sms, dal fatto che la dottoressa Caserta non neghi, nella sua memoria difensiva, il rapporto conflittuale con Nardi», dando un’altra versione dei fatti.
Le due parti in causa, contattate dal Giornale, hanno rifiutato qualsiasi commento. Anche i testimoni hanno preferito non esprimersi. Parlano le carte, ovvero l’atto d’accusa del giudice Nardi e la controdenuncia della Caserta finita alla procura generale. Nardi la mette così. Spiega che nell’ambito di rapporti di natura personale si sono sviluppati «atti aggressivi, violenti e persecutori» da parte della dottoressa Caserta. Le cose, aggiunge, si mettono presto male. Gli episodi di stalking selvaggio riferiti dall’autore dell’esposto (che fa sempre i nomi dei testimoni dei fatti denunciati) non si contano. E quando Nardi minaccia di rivolgersi al Csm, la gip, a suo dire, fa presente che gliela farà pagare perché lei ha amici intimi a palazzo dei Marescialli. Nardi dice d’aver provato a ricondurla a più miti consigli. Ma il 15 marzo scorso viene raggiunto a Sassari e aggredito a pranzo. «Verso le 14.45 la Caserta piombò letteralmente nel ristorante senza alcun preavviso e dopo avermi strattonato e preso a calci e pugni davanti agli astanti cominciava a insultarmi ad alta voce col solito frasario: figlio di puttana, merda, stronzo. Erano presenti il presidente del tribunale di sorveglianza dottoressa Vertaldi, i presidenti delle sezioni di corte d’appello, l’avvocato generale Claudio Locurto...» e via discorrendo. Proprio l’avvocato, continua Nardi, prova inutilmente a calmare la donna. Dopodiché, fuori dal locale, Nardi è colpito al volto con una borsa. «Cadevo privo di sensi, in una pozza di sangue».
Come da referti medici allegati, Nardi si risveglierà al pronto soccorso: viso sfregiato, 17 punti di sutura per 70 giorni di prognosi. Atti violenti si sarebbero susseguiti anche nei mesi a seguire in più luoghi. Quel che più avrebbe scioccato i componenti del Csm sarebbero però i toni degli sms inviati dalla Caserta. Frasi dettate dal risentimento, che lasciano però interdetti: «Non smetterò di respirare finché non ti avrò visto nel fango», «a suo tempo devi crepare», «So cose su di te con cui posso schiacciarti come un verme, stai attento tu verme e pensa a non fare ingravidare tua figlia da qualche delinquente come te verme schifoso», «pagherai caro, e non per mano mia», «Aspetteremo di vedere il fiorellino che hai a casa (mia figlia di 11 anni, scrive Nardi) da quanti sarà colto, «tanto ci penseranno altri a fartela pagare, e comunque i tuoi figli sono merde come te».
La gip, da parte sua, offre un’altra versione ai carabinieri che hanno appena finito di perquisirla a casa e in ufficio. Riferisce che alla luce dei suoi ripetuti tentativi di lasciare l’uomo, Nardi «implementava la sua attività persecutoria già manifestata in precedenza con minacce di ogni genere (“stai bene attenta, guardati le spalle, ti distruggerò, se mi attraversi la strada accelero”) e iniziava una pressante attività di persecuzione ai miei danni già manifestata in passata con ingiurie, minacce e aggressioni fisiche». La Caserta mette nella denuncia contenuti di alcuni sms e chiosa: «Sinora ho vissuto in un clima di terrore che è aumentato dopo l’arrivo dell’esposto anonimo» ai miei genitori.
Il Csm ha creduto a Nardi, per ora. Le contestazioni della gip sono ora al vaglio della Procura generale. Lo stesso Csm si dovrebbe però concentrare anche sul contenuto di alcune e-mail, tra gli allegati agli atti della controversia, che il terrorizzato Nardi archiviava a futura memoria. Perché in una di queste si dà conto di uno strano presunto episodio che coinvolge la gip e il pm dell’inchiesta Agcom-Annozero, finito lui stesso sotto procedimento disciplinare al Csm per aver nascosto al capo parte dell’inchiesta su Berlusconi.
Accuse gravi, queste di Nardi, che non si possono lasciare appese al dubbio. Perché se è vero quel che dice Nardi, il pm Ruggiero avrebbe riferito alla gip Caserta notizie che non solo non aveva messo a conoscenza del suo procuratore ma ne avrebbe parlato con un potenziale giudice terzo dell’inchiesta. In una e-mail delle ore 9.54 del 22 giugno 2010 Nardi scrive: «La stessa (la Caserta, ndr) mi ha riferito di aver deposto il falso dinanzi al maggiore dei carabinieri nascondendo la circostanza che il dottor Ruggiero, con il quale ha un rapporto confidenziale, nel dicembre del 2009 le disse che stava intercettando Berlusconi e che presto il clamore della vicenda avrebbe fatto cadere il governo. La circostanza mi fu immediatamente riferita dalla Caserta poco prima di Natale del 2009. Ero convinto che avrebbe deposto la verità. Le ho chiesto le ragioni della falsa dichiarazione e lei mi ha risposto che non poteva tradire Michele Ruggiero e che comunque Berlusconi meritava di cadere perché è un dittatore». Il pm Ruggiero, rintracciato dal Giornale, casca dalla nuvole: «Della vicenda fra loro (Nardi e Caserta) so quello che sanno un po’ tutti. Ma una cosa è certa: quello che sarebbe scritto nella mail è assolutamente e totalmente falso. Non solo io non ho riferito niente a nessuno ma queste cose erano coperte da segreto e mai e poi mai le avrei dette, né in ragione della mia professione e nemmeno dal fatto che vi era un rapporto di colleganza o di amicizia».
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Al Csm la lite tra due toghe porta alla luce particolari inquietanti sul caso Agcom-Annozero Un magistrato di Trani: «La gip mi disse che Berlusconi è un dittatore, lo faranno cadere»
di Gian Marco Chiocci - 05 febbraio 2012, 10:55
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dal nostro inviato a Trani
Quando le toghe trescano e inforcano i guantoni pensando a Berlusconi come a un dittatore. Ha dell’incredibile la relazione tra due magistrati sfociata in pestaggi, volti sfregiati, minacce, appostamenti sotto casa, rocamboleschi pedinamenti, irripetibili ingiurie telefoniche, denunce e controdenunce, coinvolgimenti di ufficiali dei carabinieri, persino filmini hard.
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La storia che a Trani è finita a cazzotti e carte bollate ha incidentalmente portato alla luce inquietanti collegamenti con la nota inchiesta Agcom, quella delle intercettazioni selvagge dell’ex premier Silvio Berlusconi.
Emergerebbero, infatti, retroscena tali da riscrivere la genesi dell’inchiesta del pm di Trani, Michele Ruggiero, finito lui stesso sott’inchiesta al Csm per aver nascosto parte dell’indagine su Berlusconi al procuratore capo di Trani, Carlo Maria Capristo. Per addentrarci in questo ginepraio occorre rifarsi all’ordinanza 163/2011 con la quale la sezione disciplinare del Csm dispone il trasferimento da Trani al tribunale di Matera del gip Maria Grazia Caserta. Nella decisione dell’ottobre scorso si fa presente che il procuratore generale della suprema corte di Cassazione, letti gli atti, ha chiesto la sospensione cautelare delle funzioni e dallo stipendio e il collocamento fuori ruolo organico della dottoressa Caserta. In subordine, il trasferimento d’ufficio, opzione poi scelta dal Csm che la manderà in provincia di Matera dopo aver fatto presente che la gip è indagata a Lecce e che «vi sono serie ragioni per ipotizzare, con ragionevole fondatezza, la sussistenza di fatti posti a fondamento dell’azione disciplinare» posto che «le condotte contestate appaiono (...) sintomatiche di una carenza di equilibrio». Come dire: un gip con poco equilibrio non può stare a Trani, ma può benissimo esercitare a Matera. Nelle motivazioni si parla di una relazione «caratterizzata da atteggiamenti violenti e minacciosi» della gip che «hanno creato disdoro per l’immagine della magistratura» in quel di Trani, dove la storia era divenuta pubblica attraverso un esposto anonimo.
«La verosimiglianza e la credibilità delle prospettazioni accusatorie – continua il dispositivo - sono provate anche dalla documentazione in atti e in particolare dai certificati medici da cui si evincono le lesioni (riportate da Nardi, ndr) di cui alle incolpazioni» e ancora «dal tenore e dal contenuto degli sms, dal fatto che la dottoressa Caserta non neghi, nella sua memoria difensiva, il rapporto conflittuale con Nardi», dando un’altra versione dei fatti.
Le due parti in causa, contattate dal Giornale, hanno rifiutato qualsiasi commento. Anche i testimoni hanno preferito non esprimersi. Parlano le carte, ovvero l’atto d’accusa del giudice Nardi e la controdenuncia della Caserta finita alla procura generale. Nardi la mette così. Spiega che nell’ambito di rapporti di natura personale si sono sviluppati «atti aggressivi, violenti e persecutori» da parte della dottoressa Caserta. Le cose, aggiunge, si mettono presto male. Gli episodi di stalking selvaggio riferiti dall’autore dell’esposto (che fa sempre i nomi dei testimoni dei fatti denunciati) non si contano. E quando Nardi minaccia di rivolgersi al Csm, la gip, a suo dire, fa presente che gliela farà pagare perché lei ha amici intimi a palazzo dei Marescialli. Nardi dice d’aver provato a ricondurla a più miti consigli. Ma il 15 marzo scorso viene raggiunto a Sassari e aggredito a pranzo. «Verso le 14.45 la Caserta piombò letteralmente nel ristorante senza alcun preavviso e dopo avermi strattonato e preso a calci e pugni davanti agli astanti cominciava a insultarmi ad alta voce col solito frasario: figlio di puttana, merda, stronzo. Erano presenti il presidente del tribunale di sorveglianza dottoressa Vertaldi, i presidenti delle sezioni di corte d’appello, l’avvocato generale Claudio Locurto...» e via discorrendo. Proprio l’avvocato, continua Nardi, prova inutilmente a calmare la donna. Dopodiché, fuori dal locale, Nardi è colpito al volto con una borsa. «Cadevo privo di sensi, in una pozza di sangue».
Come da referti medici allegati, Nardi si risveglierà al pronto soccorso: viso sfregiato, 17 punti di sutura per 70 giorni di prognosi. Atti violenti si sarebbero susseguiti anche nei mesi a seguire in più luoghi. Quel che più avrebbe scioccato i componenti del Csm sarebbero però i toni degli sms inviati dalla Caserta. Frasi dettate dal risentimento, che lasciano però interdetti: «Non smetterò di respirare finché non ti avrò visto nel fango», «a suo tempo devi crepare», «So cose su di te con cui posso schiacciarti come un verme, stai attento tu verme e pensa a non fare ingravidare tua figlia da qualche delinquente come te verme schifoso», «pagherai caro, e non per mano mia», «Aspetteremo di vedere il fiorellino che hai a casa (mia figlia di 11 anni, scrive Nardi) da quanti sarà colto, «tanto ci penseranno altri a fartela pagare, e comunque i tuoi figli sono merde come te».
La gip, da parte sua, offre un’altra versione ai carabinieri che hanno appena finito di perquisirla a casa e in ufficio. Riferisce che alla luce dei suoi ripetuti tentativi di lasciare l’uomo, Nardi «implementava la sua attività persecutoria già manifestata in precedenza con minacce di ogni genere (“stai bene attenta, guardati le spalle, ti distruggerò, se mi attraversi la strada accelero”) e iniziava una pressante attività di persecuzione ai miei danni già manifestata in passata con ingiurie, minacce e aggressioni fisiche». La Caserta mette nella denuncia contenuti di alcuni sms e chiosa: «Sinora ho vissuto in un clima di terrore che è aumentato dopo l’arrivo dell’esposto anonimo» ai miei genitori.
Il Csm ha creduto a Nardi, per ora. Le contestazioni della gip sono ora al vaglio della Procura generale. Lo stesso Csm si dovrebbe però concentrare anche sul contenuto di alcune e-mail, tra gli allegati agli atti della controversia, che il terrorizzato Nardi archiviava a futura memoria. Perché in una di queste si dà conto di uno strano presunto episodio che coinvolge la gip e il pm dell’inchiesta Agcom-Annozero, finito lui stesso sotto procedimento disciplinare al Csm per aver nascosto al capo parte dell’inchiesta su Berlusconi.
Accuse gravi, queste di Nardi, che non si possono lasciare appese al dubbio. Perché se è vero quel che dice Nardi, il pm Ruggiero avrebbe riferito alla gip Caserta notizie che non solo non aveva messo a conoscenza del suo procuratore ma ne avrebbe parlato con un potenziale giudice terzo dell’inchiesta. In una e-mail delle ore 9.54 del 22 giugno 2010 Nardi scrive: «La stessa (la Caserta, ndr) mi ha riferito di aver deposto il falso dinanzi al maggiore dei carabinieri nascondendo la circostanza che il dottor Ruggiero, con il quale ha un rapporto confidenziale, nel dicembre del 2009 le disse che stava intercettando Berlusconi e che presto il clamore della vicenda avrebbe fatto cadere il governo. La circostanza mi fu immediatamente riferita dalla Caserta poco prima di Natale del 2009. Ero convinto che avrebbe deposto la verità. Le ho chiesto le ragioni della falsa dichiarazione e lei mi ha risposto che non poteva tradire Michele Ruggiero e che comunque Berlusconi meritava di cadere perché è un dittatore». Il pm Ruggiero, rintracciato dal Giornale, casca dalla nuvole: «Della vicenda fra loro (Nardi e Caserta) so quello che sanno un po’ tutti. Ma una cosa è certa: quello che sarebbe scritto nella mail è assolutamente e totalmente falso. Non solo io non ho riferito niente a nessuno ma queste cose erano coperte da segreto e mai e poi mai le avrei dette, né in ragione della mia professione e nemmeno dal fatto che vi era un rapporto di colleganza o di amicizia».
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giovedì 12 gennaio 2012
Il primogenito della Signora dai capelli rossi Ilda,si chiama Antonio Pironti. : La voce dei senza voce
Il primogenito della Signora dai capelli rossi Ilda,si chiama Antonio Pironti. : La voce dei senza voce: « "Ruby" e tricchete e tracchete.... | Homepage | A Sinistra (Comunisti) credono tutti di avere l'Aureola e noi l'Orecchino al naso.... »
22/01/2011
Il primogenito della Signora dai capelli rossi Ilda,si chiama Antonio Pironti.
boccassini1.jpgPressioni della Boccassini per salvare il figlio ?! Durante il talk Show "l'Ultima parola" su Rai 2 Sgarbi ritorna sulla vivenda di Antonio,il figlio della Pm Boccassini che fu coinvolto in una grossa rissa ad Ischia nel Luglio del 97.Se la cavò con una denuncia a piede libero. !! E il Gup decise di non processarlo neppure !!! Fu quando si accorse che il giovane Antonio Pironti era figlio della "Boccassini magistrato core di mamma" ???? !!!! Veramente un piccolissimissimo dubbietto mi è saltato nel mio cervellino....... ""Forse sbaglierò , se succedesse qualcosa a mio figlio e se avessi qualche potere ,forse lo metterei in atto come tutti i genitori . Mai come magistrato"". Il testimone ,Deputato Pdl Laboccetta : "si vociferò che fosse stato "GRAZIATO". E se fosse vero sarebbe curioso......" .Non soltanto curioso e sconcertante ; ma mamma Boccasini Ilda, dovrebbe dare le dimissioni da magistrato per aver "coperto" suo figlio indacato. La gente del Centrodestra non è stata mai "carogna" , molla l'osso subito,e lo mollerà anche per questo caso non andando a fondo e non dandole notizia roboante.Non è come le Sinistre che spolpano sempre l'osso fino al midollo,anche se si tratta soltanto di una "Passerina entrata dentro le lenzuola di Silvio nel suo letto privato" . .-(gioser)
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22/01/2011
Il primogenito della Signora dai capelli rossi Ilda,si chiama Antonio Pironti.
boccassini1.jpgPressioni della Boccassini per salvare il figlio ?! Durante il talk Show "l'Ultima parola" su Rai 2 Sgarbi ritorna sulla vivenda di Antonio,il figlio della Pm Boccassini che fu coinvolto in una grossa rissa ad Ischia nel Luglio del 97.Se la cavò con una denuncia a piede libero. !! E il Gup decise di non processarlo neppure !!! Fu quando si accorse che il giovane Antonio Pironti era figlio della "Boccassini magistrato core di mamma" ???? !!!! Veramente un piccolissimissimo dubbietto mi è saltato nel mio cervellino....... ""Forse sbaglierò , se succedesse qualcosa a mio figlio e se avessi qualche potere ,forse lo metterei in atto come tutti i genitori . Mai come magistrato"". Il testimone ,Deputato Pdl Laboccetta : "si vociferò che fosse stato "GRAZIATO". E se fosse vero sarebbe curioso......" .Non soltanto curioso e sconcertante ; ma mamma Boccasini Ilda, dovrebbe dare le dimissioni da magistrato per aver "coperto" suo figlio indacato. La gente del Centrodestra non è stata mai "carogna" , molla l'osso subito,e lo mollerà anche per questo caso non andando a fondo e non dandole notizia roboante.Non è come le Sinistre che spolpano sempre l'osso fino al midollo,anche se si tratta soltanto di una "Passerina entrata dentro le lenzuola di Silvio nel suo letto privato" . .-(gioser)
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LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI. Chi ha graziato il figlio della Boccassini? ...Il perche' lo si sa... | Forum Radicali.it
LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI. Chi ha graziato il figlio della Boccassini? ...Il perche' lo si sa... | Forum Radicali.it: IL GIOVANE DENUNCIATO INSIEME AD ALTRI AMICI DAVANTI A UNA DISCOTECA
Rissa a Ischia, nei guai il figlio della Boccassini
----------------------------------------------------------------- Il giovane denunciato insieme ad altri amici davanti a una discoteca Rissa a Ischia, nei guai il figlio della Boccassini DAL NOSTRO INVIATO ISCHIA - Il figlio del sostituto procuratore di Milano Ilda Boccassini, il venticinquenne Antonio Pironti, e' stato coinvolto l'altra notte a Ischia in una rissa nei pressi di una discoteca. E insieme con i suoi amici (e i loro rivali) e' stato denunciato. L'episodio e' accaduto poco prima delle cinque del mattino all'esterno del night "Il Valentino", nella zona di Ischia Porto. Pironti sta trascorrendo sull'isola, di cui e' abituale frequentatore, le vacanze estive, e nella notte tra lunedi' e martedi' era stato in compagnia di due coetanei, Lucio Grassi e Luca Matrone, entrambi napoletani. Che cosa abbiano fatto i tre prima di arrivare davanti al night dove poi e' scoppiata la rissa, e' difficile dirlo. Ma probabilmente nulla di piu' o di meno di quello che fanno tutti i giovani e giovanissimi durante le notti dell'estate ischitana: si sta un po' in discoteca, poi si va a prendere il gelato in piazza, quindi si arriva magari fino alla spiaggia e alla fine si ricomincia il giro daccapo. E il giro di Pironti, Grassi e Matrone e' finito davanti a quel locale sorvegliato da due forzuti fratelli, Vincenzo e Ciro Cofano, 32 e 33 anni, che al "Valentino" lavorano come buttafuori. Ed e' stato con loro che Pironti e i suoi amici se le sono date di santa ragione. Pare che al momento di entrare nel locale i tre ragazzi siano stati bloccati perche', secondo quanto hanno raccontato alcuni testimoni, sembravano un po' troppo su di giri, e i fratelli Cofano devono aver pensato che sulla pista da ballo avrebbero potuto creare problemi. Invece i problemi sono cominciati subito. Perche' tra i buttafuori e i tre ragazzi sono immediatamente volate parole grosse, e altrettanto in fretta si e' passati a far volare pugni e calci. Alla scena era presente un carabiniere in borghese, Mario Perrotta, 30 anni, che ha cercato di intervenire per calmare gli animi, ma ha rischiato di uscirne peggio di tutti: uno degli amici di Pironti, Lucio Grassi, lo ha infatti aggredito violentemente, forse senza nemmeno capire che aveva di fronte un carabiniere. Per lui e' poi scattata anche la denuncia di oltraggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. La rissa e' andata avanti fino a quando sono arrivati altri carabinieri che hanno bloccato i cinque e li hanno accompagnati in caserma. Grassi e Matrone, pero', hanno dovuto prima fermarsi al Pronto soccorso dell'ospedale Rizzoli: mettersi contro due buttafuori e' costato a entrambi parecchie ammaccature.
Bufi Fulvio
Pagina 12
(31 luglio 1997) - Corriere della Sera
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Rissa a Ischia, nei guai il figlio della Boccassini
----------------------------------------------------------------- Il giovane denunciato insieme ad altri amici davanti a una discoteca Rissa a Ischia, nei guai il figlio della Boccassini DAL NOSTRO INVIATO ISCHIA - Il figlio del sostituto procuratore di Milano Ilda Boccassini, il venticinquenne Antonio Pironti, e' stato coinvolto l'altra notte a Ischia in una rissa nei pressi di una discoteca. E insieme con i suoi amici (e i loro rivali) e' stato denunciato. L'episodio e' accaduto poco prima delle cinque del mattino all'esterno del night "Il Valentino", nella zona di Ischia Porto. Pironti sta trascorrendo sull'isola, di cui e' abituale frequentatore, le vacanze estive, e nella notte tra lunedi' e martedi' era stato in compagnia di due coetanei, Lucio Grassi e Luca Matrone, entrambi napoletani. Che cosa abbiano fatto i tre prima di arrivare davanti al night dove poi e' scoppiata la rissa, e' difficile dirlo. Ma probabilmente nulla di piu' o di meno di quello che fanno tutti i giovani e giovanissimi durante le notti dell'estate ischitana: si sta un po' in discoteca, poi si va a prendere il gelato in piazza, quindi si arriva magari fino alla spiaggia e alla fine si ricomincia il giro daccapo. E il giro di Pironti, Grassi e Matrone e' finito davanti a quel locale sorvegliato da due forzuti fratelli, Vincenzo e Ciro Cofano, 32 e 33 anni, che al "Valentino" lavorano come buttafuori. Ed e' stato con loro che Pironti e i suoi amici se le sono date di santa ragione. Pare che al momento di entrare nel locale i tre ragazzi siano stati bloccati perche', secondo quanto hanno raccontato alcuni testimoni, sembravano un po' troppo su di giri, e i fratelli Cofano devono aver pensato che sulla pista da ballo avrebbero potuto creare problemi. Invece i problemi sono cominciati subito. Perche' tra i buttafuori e i tre ragazzi sono immediatamente volate parole grosse, e altrettanto in fretta si e' passati a far volare pugni e calci. Alla scena era presente un carabiniere in borghese, Mario Perrotta, 30 anni, che ha cercato di intervenire per calmare gli animi, ma ha rischiato di uscirne peggio di tutti: uno degli amici di Pironti, Lucio Grassi, lo ha infatti aggredito violentemente, forse senza nemmeno capire che aveva di fronte un carabiniere. Per lui e' poi scattata anche la denuncia di oltraggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. La rissa e' andata avanti fino a quando sono arrivati altri carabinieri che hanno bloccato i cinque e li hanno accompagnati in caserma. Grassi e Matrone, pero', hanno dovuto prima fermarsi al Pronto soccorso dell'ospedale Rizzoli: mettersi contro due buttafuori e' costato a entrambi parecchie ammaccature.
Bufi Fulvio
Pagina 12
(31 luglio 1997) - Corriere della Sera
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CSD - Cronologia

Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato" - Onlus
Cronologia
Fonti: 'Giornale di Sicilia', 'la Repubblica', 'Corriere della Sera', 'La Stampa'.
4 Agosto 1995CSD - Cronologia: Prosciolto dal gip di Napoli il giudice Nicola Boccassini, accusato di associazione camorristica.
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Lo sport nazionale campano
Lo sport nazionale campano: Ma ci sono stravaganze ancora più clamorose nel pallottoliere di certa schizofrenia giudiziaria campana. A Palinuro, splendida località marina del Cilento, c'è stato a lungo un sindaco Dc, Romano Speranza. Ebbene, il suo è un vero e proprio record italiano, forse mondiale: ha subìto 500 (dicasi cinquecento) processi penali dalla procura di Vallo della Lucania per abuso d'ufficio. Speranza era accusato dai procuratori Nicola Boccassini (zio di Ilda la rossa) e Anacleto Dolce di aver rilasciato concessioni edilizie in assenza dello strumento urbanistico. Anziché unificare il tutto in un unico procedimento i magistrati incardinarono tutti e cinquecento i processi, uno per ogni concessione rilasciata dal Comune. Il perché lo diremo tra poco.
Speranza fu costretto a difendersi per cinquecento volte dalla stessa accusa e, se non avesse trovato un difensore come il penalista Felice Lentini, uno dei sempre più rari avvocati che non se la fanno addosso al cospetto di un magistrato, a quest'ora sarebbe ancora in giro per aule di tribunale. Dieci anni, cinquecento processi, cinquecento assoluzioni. Un'accusa in particolare ha del metafisico: mentre per 499 volte si contestava a Speranza di aver rilasciato licenze edilizie illegittime, nella cinquecentesima gli si addebitava il contrario. Cioè il sindaco di Palinuro aveva secondo i pm abusato del suo ufficio per "non" aver concesso i permessi a un certo signore. Si deve aggiungere altro? Ma perché fare 500 processi, con relativi aggravi di spese per lo Stato oltre che con lesione delle prerogative costituzionali dell'imputato, e non uno solo dal momento che la fattispecie era unica? Semplice: perché bisognava affidare altrettante perizie tecniche d'ufficio e incarichi difensivi. Si scoprirà poi che i due pm gestivano la procura sul "modello Milano". È storia nota che, ai tempi di Tangentopoli, a Milano non finivi dietro le "sbarre preventive" di Antonio Di Pietro (nella foto) e del pool se a difenderti erano Federico Stella o Antonio Lucibello: il prototipo venne assunto, su scala ridotta, a Vallo della Lucania in tema di periti di tribunale e avvocati. L'unica differenza sta nel fatto che Boccassini e Dolce finirono dopo qualche anno in manette. Oggi uno si gode la pensione da magistrato e l'altro fa l'avvocato. Speranza è stato rieletto sindaco nel 2007 nelle liste di centrodestra dopo aver fatto il tesoriere provinciale dell'Udc prima che il partito finisse nelle mani del "mai stato anticomunista" Ciriaco De Mita (copyright del Corriere della Sera).
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Speranza fu costretto a difendersi per cinquecento volte dalla stessa accusa e, se non avesse trovato un difensore come il penalista Felice Lentini, uno dei sempre più rari avvocati che non se la fanno addosso al cospetto di un magistrato, a quest'ora sarebbe ancora in giro per aule di tribunale. Dieci anni, cinquecento processi, cinquecento assoluzioni. Un'accusa in particolare ha del metafisico: mentre per 499 volte si contestava a Speranza di aver rilasciato licenze edilizie illegittime, nella cinquecentesima gli si addebitava il contrario. Cioè il sindaco di Palinuro aveva secondo i pm abusato del suo ufficio per "non" aver concesso i permessi a un certo signore. Si deve aggiungere altro? Ma perché fare 500 processi, con relativi aggravi di spese per lo Stato oltre che con lesione delle prerogative costituzionali dell'imputato, e non uno solo dal momento che la fattispecie era unica? Semplice: perché bisognava affidare altrettante perizie tecniche d'ufficio e incarichi difensivi. Si scoprirà poi che i due pm gestivano la procura sul "modello Milano". È storia nota che, ai tempi di Tangentopoli, a Milano non finivi dietro le "sbarre preventive" di Antonio Di Pietro (nella foto) e del pool se a difenderti erano Federico Stella o Antonio Lucibello: il prototipo venne assunto, su scala ridotta, a Vallo della Lucania in tema di periti di tribunale e avvocati. L'unica differenza sta nel fatto che Boccassini e Dolce finirono dopo qualche anno in manette. Oggi uno si gode la pensione da magistrato e l'altro fa l'avvocato. Speranza è stato rieletto sindaco nel 2007 nelle liste di centrodestra dopo aver fatto il tesoriere provinciale dell'Udc prima che il partito finisse nelle mani del "mai stato anticomunista" Ciriaco De Mita (copyright del Corriere della Sera).
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la famiglia boccassini
Cronache Salerno Notizie Salerno Provincia - Home :::: E' scomparso Nicola Boccassini, il giudice che incastrò il clan Mirabile
E’ scomparso il giudice Nicola Boccassini, zio del pm di Milano Ilda Boccassini, nella sua casa di piazza Porta Rotese.
I funerali oggi nella chiesa di San Domenico alla ore undici e trenta.
Magistrato di lungo corso la sua carriera venne stroncata da una serie di indagini che lo portarono all’espulsione dall’ordine giudiziario e gli negarono anche la richiesta di pensionamento anticipato. I guai comunciarono nel 95 quando l ex procuratore capo di Vallo della Lucania fu rinviato a giudizio insieme con altre 31 persone, nell' ambito dell' inchiesta sulle tangenti pagate in cambio dell' "aggiustamento" di processi. Il provvedimento fu emesso dal gip Luigi Esposito. Boccassini, fu accusato di associazione per delinquere, concussione, corruzione, abuso d' ufficio, falso in atto pubblico e favoreggiamento. Cominciarono per lui sette anni di processi, tre gradi, fino alla sentenza definitiva di condanna in Cassazione.
Il Csm, pur di decidere la sua espulsione non gli consentì neppure di garantirsi con un difensore. Nominarono un avvocato di ufficio, lì di passaggio per palazzo dei Marescialli, al quale vennero concesse tre ore per conoscere le carte.La sentenza del Csm venne emessa nel settembre del 2002 e confermata dalla Cassazione l’anno successivo. La sua condanna penale per consussione fu motivo di rigetto anche nel tentativo di ricorso al Consiglio di Stato nel 2007 contro la sentenza emessa dal Tar del Lazio. emessa nel luglio del 2006. Come detto una lunga battaglia legale che non gli permise di ricostruire la carriera. Eppure la sua carriera fu costellata da colpi importanti.
Nel ’75, da giudice istruttore interrogò in America Masino Buscetta nell’ambito di un processo per traffico di droga nel quale fu coinvolto anche un salernitano, Carlo Zippo.Nell’86-87, come sostituto procuratore generale sostenne l’accusa contro il clan di Mario Mirabile. Lascia i figli Betty, Marco, Rossella e Marina. Chi in magistratura, chi nelle libere professioni, chi nella pubblica amministrazione con il rigore della preparazione e della serietà.
Amava ripetere ai pochi amici che gli erano rimasti:
«Rispetto oggi e rispetterò sempre la sentenza di condanna dei magistrati pronunciata nei miei confronti. Rispetto, ma non posso condividere, il provvedimento disciplinare di espulsione dopo che avevo chiesto di pensionarmi. Impugnerò in Cassazione questo provvedimento del Csm, adottato con una inedità severità del tutto sconosciuta ad altri casi analoghi. Chiederò la revisione del processo penale». Invece è morto perdendo la sua ultima battaglia.
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E’ scomparso il giudice Nicola Boccassini, zio del pm di Milano Ilda Boccassini, nella sua casa di piazza Porta Rotese.
I funerali oggi nella chiesa di San Domenico alla ore undici e trenta.
Magistrato di lungo corso la sua carriera venne stroncata da una serie di indagini che lo portarono all’espulsione dall’ordine giudiziario e gli negarono anche la richiesta di pensionamento anticipato. I guai comunciarono nel 95 quando l ex procuratore capo di Vallo della Lucania fu rinviato a giudizio insieme con altre 31 persone, nell' ambito dell' inchiesta sulle tangenti pagate in cambio dell' "aggiustamento" di processi. Il provvedimento fu emesso dal gip Luigi Esposito. Boccassini, fu accusato di associazione per delinquere, concussione, corruzione, abuso d' ufficio, falso in atto pubblico e favoreggiamento. Cominciarono per lui sette anni di processi, tre gradi, fino alla sentenza definitiva di condanna in Cassazione.
Il Csm, pur di decidere la sua espulsione non gli consentì neppure di garantirsi con un difensore. Nominarono un avvocato di ufficio, lì di passaggio per palazzo dei Marescialli, al quale vennero concesse tre ore per conoscere le carte.La sentenza del Csm venne emessa nel settembre del 2002 e confermata dalla Cassazione l’anno successivo. La sua condanna penale per consussione fu motivo di rigetto anche nel tentativo di ricorso al Consiglio di Stato nel 2007 contro la sentenza emessa dal Tar del Lazio. emessa nel luglio del 2006. Come detto una lunga battaglia legale che non gli permise di ricostruire la carriera. Eppure la sua carriera fu costellata da colpi importanti.
Nel ’75, da giudice istruttore interrogò in America Masino Buscetta nell’ambito di un processo per traffico di droga nel quale fu coinvolto anche un salernitano, Carlo Zippo.Nell’86-87, come sostituto procuratore generale sostenne l’accusa contro il clan di Mario Mirabile. Lascia i figli Betty, Marco, Rossella e Marina. Chi in magistratura, chi nelle libere professioni, chi nella pubblica amministrazione con il rigore della preparazione e della serietà.
Amava ripetere ai pochi amici che gli erano rimasti:
«Rispetto oggi e rispetterò sempre la sentenza di condanna dei magistrati pronunciata nei miei confronti. Rispetto, ma non posso condividere, il provvedimento disciplinare di espulsione dopo che avevo chiesto di pensionarmi. Impugnerò in Cassazione questo provvedimento del Csm, adottato con una inedità severità del tutto sconosciuta ad altri casi analoghi. Chiederò la revisione del processo penale». Invece è morto perdendo la sua ultima battaglia.
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domenica 8 gennaio 2012
Bashar al Assad
Nir Rosen è uno dei giornalisti americani più esperti e controversi che seguono il medio oriente. Ha vissuto a lungo in Iraq, dopo l’invasione americana, e ora fa base in Libano. Questo articolo è stato pubblicato sul sito di al Jazeera.


Bashar al Assad, una manifestazione alawita pro Assad
Mentre stiamo lasciando la città di Homs, al centro del paese, Abu Laith estrae da sotto la camicia una pistola Llama 9 millimetri, la carica e la sistema tra i sedili. E’ un sergente della Sicurezza di stato siriana e ha scelto di guidare un piccolo taxi di fabbricazione cinese per sfuggire all’attenzione degli uomini armati a caccia dei membri delle forze di sicurezza. Siamo diretti verso nord, verso il suo villaggio di Rabia, nel governatorato di Hama, e passiamo di fianco a negozi crivellati di colpi d’arma da fuoco. “Qui c’era un cecchino” mi dice a un certo punto della strada. “Ha sparato a sei pulman militari”. Passiamo di fianco a un edificio dei militari già bersagliato dagli attacchi dei combattenti dell’opposizione armata. “Qui c’era una statua dell’ex presidente Hafez”, spiega, indicandomi un piedistallo ormai vuoto.
Chiaramente offeso, aggiunge: “L’hanno abbattuta e sostituita con una scimmietta viva”. Abu Laith appartiene alla setta degli alawiti, che costituisce all’incirca il 10 percento della popolazione siriana. Gli arabi sunniti sono il 65 per cento, mentre le comunità dei curdi sunniti e dei cristiani costituiscono il 10 per cento ciascuna. Il resto è dato da drusi, sciiti, ismaeliti e altri gruppi minoritari. Da quando i baathisti sono ascesi al potere, l’appartenenza alle sette è diventata tabù, onnipresente ma mai nemmeno citata in pubblico, al punto che chi contravviene al divieto può essere punito severamente. I pregiudizi, nelle varie forme del razzismo, sessismo e settarismo, esistono in tutte le società, ma in tempi di crisi l’identità collettiva spesso finisce per dominare le relazioni sociali.
L’identità è cosa complessa e l’appartenenza alle diverse sette etnico- religiose è solo un fattore dell’identità siriana. La classe sociale, la professione, il nazionalismo, l’identità regionale e altri fattori sono tutti estremamente importanti. Ma a queste sette si appartiene dalla nascita, e solo pochi, fatta eccezione per la classe dominante ricca, supera queste classificazioni, che di norma sono evidenti già dal nome e dal luogo di nascita. Così come nei Balcani, l’identità religiosa spesso è un’identità culturale e conduce a divisioni simili a quelle etniche, anche all’interno di gruppi che parlano la stessa lingua. Poco si sa della storia della fede alawita, persino all’interno della stessa comunità alawita, perché il suo credo e le sue pratiche sono note solo ai pochi iniziati.
Assomiglia assai poco alle dottrine più comuni dell’Islam e prevede la fede nella trasmigrazione dell’anima, la reincarnazione, la divinità di Ali ibn Abi Talib, quarto Califfo e cugino del profeta Maometto, e una santa trinità composta da Alì, Maometto e uno dei compagni del profeta, Salman al Farisi. Un fattore comune dell’identità alawita è il timore dell’egemonia sunnita, dovuto a un passato di persecuzioni finite solo con la caduta dell’impero ottomano. A partire dagli anni Sessanta, il regime siriano ha incoraggiato soprattutto i contadini alawiti a migrare dalle regioni di montagna verso le pianure, concedendo loro il possesso delle terre che erano appartenute a un’élite prevalentemente sunnita. Ma a cominciare dall’inizio delle rivolte di quest’anno, alcuni hanno rimandato la propria famiglia nelle zone rurali in cerca di sicurezza. Yahya al Ahmad, un medico alawita di Homs mi spiega che la sua comunità è guardata con disapprovazione, perché si è spostata e ha trovato lavoro nell’apparato statale e nelle imprese.
“I sunniti dicono che abbiamo rubato i loro posti di lavoro e che dobbiamo tornarcene nelle campagne”, mi spiega. Un amico alawita mi dice di come si è sentito offeso nel vedere in tv i dimostranti sunniti che a Latakia gridavano che avrebbero rimandato il presidente Bashar “alla fattoria”. Per lui significa che i sunniti vogliono che tutti gli alawiti tornino ai propri villaggi. “La condizione degli alawiti non è mai stata invidiabile” ha scritto la storica Hanna Batatu. “Sotto gli ottomani hanno subito abusi, oltraggi e varie forme di oppressione amministrativa; talvolta, donne e bambini sono stati fatti prigionieri e venduti”. Il mandato francese che sostituì l’impero ottomano diede alle minoranze maggiore autonomia, indebolendo la preesistente élite sunnita, mentre gli alawiti chiedevano il riconoscimento da parte francese di uno stato autonomo. Le minoranze, in particolare gli alawiti, identificarono allora nel partito baathista al potere e nella sua ideologia pan-arabica uno strumento per superare gli stretti confini delle diverse identità settarie; al contempo, l’occupazione nel settore pubblico e nell’esercito diede modo a molti di migliorare la propria condizione. Nel 1955 la maggioranza dei sottufficiali era alawita, e in breve anche il comitato militare del partito si trovò sotto controllo alawita. Erano gli alawiti a decidere chi entrava nelle accademie militari, scegliendo tra le persone che provenivano da strati sociali fidati, spesso alawiti o sunniti delle zone rurali, e incoraggiando gli alleati più leali a entrare nelle unità pretoriane. Nel 1970 salì al potere Hafez al Assad, ministro alawita della Difesa ed ex funzionario militare. Concentrò il potere nelle mani di parenti e amici stretti, compresi molti alawiti provenienti dal governatorato di Latakia, sua regione natale, pur promuovendo anche alcuni colleghi dell’accademia militare sunnita. Con il nepotismo di Assad, la setta si trovò presente in modo sproporzionato nelle istituzioni. Lo stato, detto persino “assadismo”, subentrò alla religione come fulcro dell’identità settaria.
Gli alawiti sono sempre stati rifiutati dalla corrente predominante dell’islam. Per essere accettato come guida, Assad dovette convincere i sunniti e gli stessi alawiti che questi ultimi rientravano in quella corrente predominante. Sebbene gli alawiti abbiano una forte identità comune e continuino a visitare i mazar (i santuari), e tendenzialmente prevedano la partecipazione di uno sceicco a funerali e matrimoni, non sanno esattamente cosa ciò significhi. Joshua Landis, direttore del centro per gli studi sul medio oriente della University of Oklahoma, ha rivelato che gli alawiti non ricevono un’istruzione in merito alla propria religione, tanto che i manuali in uso nelle scuole siriane non fanno nemmeno uso della parola “alawita”. “L’istruzione islamica nelle scuole siriane è tradizionale, rigida e sunnita – ha scritto – Il ministero dell’Istruzione non tenta in nessun modo di inculcare nozioni di tolleranza e rispetto per le tradizioni religiose diverse da quelle dell’islam sunnita”. Il cristianesimo, nota Landis, ha costituito un’eccezione.
Il regime ha negato agli alawiti qualsiasi spazio pubblico per praticare la propria fede; non ha riconosciuto un consiglio alawita che avrebbe potuto stilare norme religiose e che sarebbe stato uno strumento utile a spiegare la religione alawita agli altri, per ridurre i sospetti su quella che molti siriani percepiscono come una fede misteriosa. La perdita del ruolo tradizionale dei capi di comunità ha frammentato la setta, impedendo ai suoi adepti di definire posizioni unitarie e di instaurare un dialogo in quanto comunità con le altre sette siriane, e rafforzando in questo modo le paure e la diffidenza settarie. E’ difficile dire quali fattori definiscano l’appartenenza alla setta, se non il fatto di essere nati da genitori alawiti. Poiché la loro identità si fonda sul ruolo guida di Assad, hanno adottato un motto come “Assad per sempre”, che impedisce loro di distaccarsi dal regime e di immaginare una Siria senza Assad. Gli alawiti che osano opporsi al regime credono che incorreranno in una speciale punizione a causa del loro “tradimento”.
La rivolta dei Fratelli musulmani iniziata nel 1976, che ha portato alla guerra civile tra il ’79 e l’82, ha condizionato il modo in cui gli alawiti leggono le rivolte attuali. All’epoca, i Fratelli musulmani avevano tentato di riunire i sunniti in una lotta settaria. Uccisero molti intellettuali, giudici e medici alawiti. Il massacro dei candidati ufficiali nell’accademia militare di Aleppo nel 1979, insieme all’assassinio dello sceicco alawita Yusuf Sarem, sono ancora vivi nella memoria della comunità. La maggioranza sunnita, dal canto suo, ricorda la brutalità con cui è stata schiacciata la rivolta dei Fratelli musulmani: l’organizzazione è stata annientata in Siria e ancora oggi è largamente assente nelle attuali rivolte, anche se la maggior parte dei dimostranti odierni è costituita da sunniti conservatori. Quella di quest’anno è una rivolta popolare, particolarmente sentita tra i poveri, a differenza della sommossa dei Fratelli musulmani (che, per quanto abbiano perso molta credibilità dopo la repressione, continuano a essere influenti nell’opposizione che fomenta le paure alawite).
Nel 1981, lo storico Hanna Batatu scrisse: “A favorire la coesione nella congiuntura attuale è il forte timore, diffuso tra gli alawiti di tutti gli strati sociali, che su di loro potrebbero ripercuotersi conseguenze terribili se il regime esistente dovesse essere destituito dal potere o collassare”. Gli alawiti ritengono di essere più “liberali” e laici dei sunniti: consumano alcol, vivono più liberamente i contatti tra uomini e donne, l’abbigliamento e il comportamento femminili sono più occidentali. Si sentono offesi dalle voci diffuse dalla maggioranza sunnita, secondo le quali le loro pratiche religiose prevedono orge; così come li offende sentir dire che la Siria è un regime alawita e che per questo sarebbero privilegiati. In realtà, gli alawiti appoggiano la famiglia Assad in sé più che il regime, tant’è vero che criticano prontamente la corruzione dell’amministrazione statale.
Non potendo mobilitarsi come alawiti, si rivolgono alla famiglia al potere per seguirne la guida. Il regime però agisce nel proprio interesse, non in quello degli alawiti. Il blogger alawita Karfan ha scritto: “Cancellando tutte le forme di identità religiosa e impedendo agli alawiti di costruirsene un’altra altrove, gli alawiti sono stati semplicemente trasformati in una sorta di tribù, unita intorno a un unico obiettivo: mantenere il re al potere. Intanto tutti continuano a parlare di un ‘regime alawita’ e ad addossare tutte le sue responsabilità agli alawiti. Saremo destinati a portare il fardello delle colpe delle stesse persone che hanno distrutto la nostra religione”. Quando Hafez al Assad prese il potere, favorì la secolarizzazione del Partito baathista, fiaccandolo per trasformarlo in un partito pro Assad.
La solidarietà alawita e il sostegno di alcune ricche famiglie sunnite consolidarono il regime. All’indebolimento del Partito baathista seguì anche quello dei sindacati e delle organizzazioni imprenditoriali; il vuoto sociale fu riempito dai sunniti conservatori, le cui organizzazioni di beneficenza poterono svolgere un ruolo di crescente importanza. Anche i membri del clero sunnita ottennero qualche libertà (una decisione che, se in un primo momento aumentò i sostenitori del regime, ora alimenta le divisioni tra i sunniti e i servizi di sicurezza dominati dagli alawiti). La debolezza del partito baathista significa anche che il regime non può mobilitare gli abitanti intorno a nulla di diverso da Bashar al Assad, che ha preso il potere dopo la morte del padre, nel 2000. Tant’è vero che di questi tempi è facile capire se ci si trova in una zona alawita: sono luoghi in cui tutto lo spazio disponibile è tappezzato di immagini del presidente Bashar, del fratello Maher o del padre Hafez (mentre gli uomini sfrecciano avanti e indietro sulle moto, tutti con indosso le magliette di Bashar). Parlare con accento alawita può essere d’aiuto a superare i posti di blocco militari.
Il tassista che mi ha portato nel quartiere di Duma, una roccaforte dell’opposizione a Damasco, è un alawita di Latakia. Ha parlato con gli ufficiali al posto di blocco con l’accento alawita, sostenendo che fossi libanese; ci hanno fatto passare senza nemmeno guardare la mia carta d’identità. Di ritorno nel governatorato di Hama, invece, Abu Laith si preoccupa dei posti di controllo presidiati da uomini dell’opposizione. E’ pienamente consapevole dell’identità culturale di ognuno dei villaggi circostanti, e abbandona la strada principale per evitare l’irrequieta città sunnita di Hama. Passiamo dal povero villaggio alawita di Alamein, nei pressi di Tumin. “Tumin è un villaggio cristiano – mi spiega – Dei cristiani qui ci si può fidare. Tumin è ricca e la gente è molto buona”. Facciamo salire un autostoppista diretto a Rabia; è un soldato di ritorno dal lavoro. Sembra rilassarsi quando vede chi guida. Aveva paura di stare sulla strada, racconta, “paura dei terroristi”. Veste in abiti civili. “Perché mi farebbero fuori”, spiega. E’ ostile a tutti i sunniti, che ritiene responsabili della brutalità con cui sono stati uccisi i soldati. Abu Laith è a disagio: “Non sono tutti così”, ammonisce. I pullman pubblici ora attraversano Rabia per evitare i villaggi sunniti “meno sicuri”.
Grandi barriere di pietra bloccano l’ingresso alla città. Tre uomini armati di fucile e con le cinture foderate di munizioni ci fanno cenno di rallentare, fino a quando non riconoscono Abu Laith. Passiamo di fianco ad altri uomini che pattugliano la zona in moto con il fucile a tracolla e ci dirigiamo verso il cimitero cittadino. Forse un migliaio di persone partecipa al funerale di un soldato, Naeem Tarif, ucciso ad Hama. Molti dei partecipanti hanno con sé un’arma; alcuni bambini sventolano immagini del presidente. La strada che lascia la città in direzione ovest è anch’essa bloccata da massi di pietra e da un posto di blocco. Diversi uomini, tutti armati, se ne stanno seduti in un piccolo capanno di legno, che su una parete reca la scritta “Dio, Siria e Bashar, e nient’altro”. Molte strade di Rabia non sono asfaltate. Nel centro città troviamo una statua color rame lucido dell’ex presidente Hafez al Assad che con una mano brandisce una spada e nell’altra tiene un ramoscello d’olivo. Gli abitanti l’hanno fatta innalzare a proprie spese un mese prima, come mi racconta Abu Laith. “A Rabia ci sono solo scuole, niente parchi giochi o altro”, si lamenta Abu Laith. Mi porta alla casa del padre, dove il figlio di sei anni mi saluta chiedendomi immediatamente: “Stai coi nostri o coi loro?”.
“E tu con chi stai?”, gli chiede il padre. “Io sto con la Siria”. Gli uomini della sicurezza come Abu Laith sono da sempre più occupati degli altri, e raramente riescono a fare visita alle famiglie. Ha quattro fratelli nelle forze di sicurezza e uno disoccupato. “La maggior parte degli uomini qui fa parte delle forze di sicurezza – mi spiega – ma abbiamo pochissimi ufficiali. Non ci permettono di diventarlo”. Quanto a quei giorni d’agosto, Rabia ha pagato con dieci “martiri” delle forze di sicurezza e altri abitanti, forse 15, sono stati feriti negli scontri con i combattenti dell’opposizione armata. Altri due ufficiali delle forze di sicurezza di Rabia, due sergenti, sono stati uccisi alcuni giorni più tardi. Facciamo visita alla famiglia di Naeem Tarif, l’uomo di cui abbiamo visto il funerale poco prima, in una tenda fuori casa. Tarif aveva 40 anni, era un sergente con vent’anni di carriera.
E’ stato ucciso ad Hama una settimana fa, ma il suo corpo è stato trovato solo il giorno del mio arrivo. E’ stato decapitato, e il suo corpo bruciato, mi racconta il fratello. I video che ritraggono uomini armati mentre si liberano del corpo, trovati su alcuni cellulari sequestrati, sono stati trasmessi in tv e su Internet. “Abbiamo paura”, mi dice un nipote. “Tutto il villaggio è pronto a sacrificarsi per la nazione”, proclama un altro. Sono spaventati dai gruppi armati. “Già in passato sono stati qui, come cellule dormienti”, dice un parente. Sono tutti furenti con i mezzi di comunicazione internazionali perché non raccontano quanto sta succedendo loro. Incontro la famiglia di Issa Bakir, che da undici anni è sergente di polizia ad Aleppo.
Dopo aver fatto visita alla sua famiglia a Rabia, il 5 luglio, Issa stava tornando ad Aleppo, passando per Hama. E’ stato fermato a un posto di blocco. E’ stato colpito alla testa con un bastone, poi gli hanno tagliato la gola. “L’hanno fermato, hanno bruciato la macchina, l’hanno sgozzato e l’abbiamo trovato vicino alla moschea”, mi racconta il padre. Il fratello di Bakir lavorava con lui nella polizia di Aleppo, ma ora per andare al lavoro passa per Latakia, per evitare Hama. “L’hanno ucciso perché era alawita – continua il padre – I miei figli e io siamo un sacrificio offerto per la patria. Non siamo settari. Prima i nostri rapporti (con i sunniti) erano normali”. E’ lo stato che deve occuparsi di rendere giustizia al figlio, mi dice: “Non vogliamo vendetta. Perché non ci deve essere una logica settaria in Siria”. Non lontano vive Muhamad Khazem, un sergente della sicurezza di stato; ha 46 anni, è grande e grosso e riposa a letto, ferito. Mi mostra il foro d’ingresso di una pallottola, appena sotto la gola, e il punto da cui è uscita, sulla schiena, giusto una settimana prima. Lui e altre decine di uomini della sicurezza erano in missione per rimuovere i blocchi stradali dell’opposizione, quando è stato colpito. “E’ al Qaeda – sostiene il fratello – Ho combattuto nella guerra del ’73. Fosse stato Israele a ferire un siriano, l’avrebbero portato in ospedale, e se fosse morto l’avrebbero sepolto dignitosamente.
Gli israeliani hanno più compassione di questi altri, che sono selvaggi”. Rabia confina con due villaggi sunniti: Tizeen e Kifr Tun. L’elettricità viene da Tizeen e gli abitanti sostengono che i sunniti della città vicina di recente abbiano tagliato la linea elettrica. Li accusano anche di aver ucciso due uomini alawiti sei giorni prima. Gli alawiti di Rabia dicono che i villaggi sunniti di Mitneen, Arzi e Kifr Tun hanno espulso le famiglie alawite, e Rabia ha accolto gli sfollati. Il contadino Hamid Diab e i suoi otto figli sono stati tra le trenta famiglie espulse da Kifr Tun, dove vivevano dal ’59. Racconta che gli alawiti in città sono stati minacciati. Li hanno avvisati: “Vi sgozzeremo”. Una settimana prima, di mattina, erano stati attaccati da uomini armati. “Hanno bruciato pneumatici e hanno sparato per spaventarci”, racconta. “Alcuni sunniti sono brave persone e non l’hanno accettato: è stato un sunnita ad aiutarci a uscire”. Sostiene che uno dei membri del commando era un beduino che si fa chiamare Dahib al Thawra, “macellaio della rivoluzione”. Dice che gli abitanti di Rabia li hanno accolti bene, ma che hanno lasciato tutto a Kifr Tun. Ora non hanno accesso alle loro fattorie o ai loro orti. Non c’erano mai stati problemi prima della rivolta, sostiene, e i suoi figli erano andati a scuola con i bambini sunniti. Sospetta che prima l’odio fosse nascosto.
“E’ stata la gente del villaggio ad attaccarci. Erano usciti allo scoperto durante il Ramadan, quando avevano inviato il loro saluto a Bandar e Arur”, racconta, riferendosi al potente principe saudita Bandar bin Sultan e allo sceicco agitatore siriano Adnan al Arur. “Adorano tutti Arur da quelle parti, quando parlava alzavano il volume, così potevamo sentirlo da casa nostra”. Hamid mi dice che lo stesso giorno gli abitanti di Kifr Tun hanno assalito un alawita del villaggio di Addas mentre stava attraversando la città in moto, cospargendolo di benzina. Ha preso fuoco, ma altri abitanti l’hanno salvato. Non c’erano forze di sicurezza nel paese, mi dice. Solo una stazione di polizia nel villaggio alawita di Jarjara, che aveva competenza sui tanti villaggi della zona. “Non avevamo armi, altrimenti avremmo risposto al fuoco”, dice Hamid. “Le forze di sicurezza hanno bisogno dei carri armati per entrare nei villaggi. L’opposizione ha bloccato le strade. L’esercito deve entrare nei villaggi, ma è troppo occupato ad Hama. Perché lo stato temporeggia?”. Il padre di Abu Laith, Abu Iyad, soldato in pensione, è d’accordo: “Solo l’esercito può risolvere la situazione. Se rispondiamo, sarà una risposta settaria, gli altri villaggi si uniranno a loro e saranno più di noi”.
Per i vicini sunniti, Rabia è altrettanto preoccupante, perché rappresenta i fanatici alawiti, sostenitori del regime. Firas, uno degli organizzatori dell’opposizione nella città di Rasta, mi racconta del cugino Muhamad Hussein Shahul, un tassista 35enne che non partecipa all’attività dell’opposizione. A luglio, Shahul ha portato quattro operai che tornavano a casa, a Tizeen, dal Libano. La strada che attraversava la città di Hama era chiusa perché erano in corso degli scontri, per cui sono passati per la città cristiana di Kfarbo e poi da Rabia, dove, dice Firas “una banda di alawiti fedeli ad Assad” ha teso loro un’imboscata. Un passeggero è sfuggito, ma gli altri quattro uomini sono stati torturati e giustiziati. I cadaveri sono stati lasciati nella macchina, abbandonata vicino alla città di Masyaf prima di dare la notizia alle famiglie. “Non abbiamo potuto andarci noi”, continua suo cugino, “perché ci avrebbero uccisi”. I funzionari dell’esercito di Rastan hanno coordinato l’intervento con i colleghi di Masyaf, che hanno portato il corpo di Muhamad al confine con un villaggio alawita, dove la famiglia ha potuto recuperarlo per dargli sepoltura.
Bashar al Assad, una manifestazione alawita pro Assad
Mentre stiamo lasciando la città di Homs, al centro del paese, Abu Laith estrae da sotto la camicia una pistola Llama 9 millimetri, la carica e la sistema tra i sedili. E’ un sergente della Sicurezza di stato siriana e ha scelto di guidare un piccolo taxi di fabbricazione cinese per sfuggire all’attenzione degli uomini armati a caccia dei membri delle forze di sicurezza. Siamo diretti verso nord, verso il suo villaggio di Rabia, nel governatorato di Hama, e passiamo di fianco a negozi crivellati di colpi d’arma da fuoco. “Qui c’era un cecchino” mi dice a un certo punto della strada. “Ha sparato a sei pulman militari”. Passiamo di fianco a un edificio dei militari già bersagliato dagli attacchi dei combattenti dell’opposizione armata. “Qui c’era una statua dell’ex presidente Hafez”, spiega, indicandomi un piedistallo ormai vuoto.
Chiaramente offeso, aggiunge: “L’hanno abbattuta e sostituita con una scimmietta viva”. Abu Laith appartiene alla setta degli alawiti, che costituisce all’incirca il 10 percento della popolazione siriana. Gli arabi sunniti sono il 65 per cento, mentre le comunità dei curdi sunniti e dei cristiani costituiscono il 10 per cento ciascuna. Il resto è dato da drusi, sciiti, ismaeliti e altri gruppi minoritari. Da quando i baathisti sono ascesi al potere, l’appartenenza alle sette è diventata tabù, onnipresente ma mai nemmeno citata in pubblico, al punto che chi contravviene al divieto può essere punito severamente. I pregiudizi, nelle varie forme del razzismo, sessismo e settarismo, esistono in tutte le società, ma in tempi di crisi l’identità collettiva spesso finisce per dominare le relazioni sociali.
L’identità è cosa complessa e l’appartenenza alle diverse sette etnico- religiose è solo un fattore dell’identità siriana. La classe sociale, la professione, il nazionalismo, l’identità regionale e altri fattori sono tutti estremamente importanti. Ma a queste sette si appartiene dalla nascita, e solo pochi, fatta eccezione per la classe dominante ricca, supera queste classificazioni, che di norma sono evidenti già dal nome e dal luogo di nascita. Così come nei Balcani, l’identità religiosa spesso è un’identità culturale e conduce a divisioni simili a quelle etniche, anche all’interno di gruppi che parlano la stessa lingua. Poco si sa della storia della fede alawita, persino all’interno della stessa comunità alawita, perché il suo credo e le sue pratiche sono note solo ai pochi iniziati.
Assomiglia assai poco alle dottrine più comuni dell’Islam e prevede la fede nella trasmigrazione dell’anima, la reincarnazione, la divinità di Ali ibn Abi Talib, quarto Califfo e cugino del profeta Maometto, e una santa trinità composta da Alì, Maometto e uno dei compagni del profeta, Salman al Farisi. Un fattore comune dell’identità alawita è il timore dell’egemonia sunnita, dovuto a un passato di persecuzioni finite solo con la caduta dell’impero ottomano. A partire dagli anni Sessanta, il regime siriano ha incoraggiato soprattutto i contadini alawiti a migrare dalle regioni di montagna verso le pianure, concedendo loro il possesso delle terre che erano appartenute a un’élite prevalentemente sunnita. Ma a cominciare dall’inizio delle rivolte di quest’anno, alcuni hanno rimandato la propria famiglia nelle zone rurali in cerca di sicurezza. Yahya al Ahmad, un medico alawita di Homs mi spiega che la sua comunità è guardata con disapprovazione, perché si è spostata e ha trovato lavoro nell’apparato statale e nelle imprese.
“I sunniti dicono che abbiamo rubato i loro posti di lavoro e che dobbiamo tornarcene nelle campagne”, mi spiega. Un amico alawita mi dice di come si è sentito offeso nel vedere in tv i dimostranti sunniti che a Latakia gridavano che avrebbero rimandato il presidente Bashar “alla fattoria”. Per lui significa che i sunniti vogliono che tutti gli alawiti tornino ai propri villaggi. “La condizione degli alawiti non è mai stata invidiabile” ha scritto la storica Hanna Batatu. “Sotto gli ottomani hanno subito abusi, oltraggi e varie forme di oppressione amministrativa; talvolta, donne e bambini sono stati fatti prigionieri e venduti”. Il mandato francese che sostituì l’impero ottomano diede alle minoranze maggiore autonomia, indebolendo la preesistente élite sunnita, mentre gli alawiti chiedevano il riconoscimento da parte francese di uno stato autonomo. Le minoranze, in particolare gli alawiti, identificarono allora nel partito baathista al potere e nella sua ideologia pan-arabica uno strumento per superare gli stretti confini delle diverse identità settarie; al contempo, l’occupazione nel settore pubblico e nell’esercito diede modo a molti di migliorare la propria condizione. Nel 1955 la maggioranza dei sottufficiali era alawita, e in breve anche il comitato militare del partito si trovò sotto controllo alawita. Erano gli alawiti a decidere chi entrava nelle accademie militari, scegliendo tra le persone che provenivano da strati sociali fidati, spesso alawiti o sunniti delle zone rurali, e incoraggiando gli alleati più leali a entrare nelle unità pretoriane. Nel 1970 salì al potere Hafez al Assad, ministro alawita della Difesa ed ex funzionario militare. Concentrò il potere nelle mani di parenti e amici stretti, compresi molti alawiti provenienti dal governatorato di Latakia, sua regione natale, pur promuovendo anche alcuni colleghi dell’accademia militare sunnita. Con il nepotismo di Assad, la setta si trovò presente in modo sproporzionato nelle istituzioni. Lo stato, detto persino “assadismo”, subentrò alla religione come fulcro dell’identità settaria.
Gli alawiti sono sempre stati rifiutati dalla corrente predominante dell’islam. Per essere accettato come guida, Assad dovette convincere i sunniti e gli stessi alawiti che questi ultimi rientravano in quella corrente predominante. Sebbene gli alawiti abbiano una forte identità comune e continuino a visitare i mazar (i santuari), e tendenzialmente prevedano la partecipazione di uno sceicco a funerali e matrimoni, non sanno esattamente cosa ciò significhi. Joshua Landis, direttore del centro per gli studi sul medio oriente della University of Oklahoma, ha rivelato che gli alawiti non ricevono un’istruzione in merito alla propria religione, tanto che i manuali in uso nelle scuole siriane non fanno nemmeno uso della parola “alawita”. “L’istruzione islamica nelle scuole siriane è tradizionale, rigida e sunnita – ha scritto – Il ministero dell’Istruzione non tenta in nessun modo di inculcare nozioni di tolleranza e rispetto per le tradizioni religiose diverse da quelle dell’islam sunnita”. Il cristianesimo, nota Landis, ha costituito un’eccezione.
Il regime ha negato agli alawiti qualsiasi spazio pubblico per praticare la propria fede; non ha riconosciuto un consiglio alawita che avrebbe potuto stilare norme religiose e che sarebbe stato uno strumento utile a spiegare la religione alawita agli altri, per ridurre i sospetti su quella che molti siriani percepiscono come una fede misteriosa. La perdita del ruolo tradizionale dei capi di comunità ha frammentato la setta, impedendo ai suoi adepti di definire posizioni unitarie e di instaurare un dialogo in quanto comunità con le altre sette siriane, e rafforzando in questo modo le paure e la diffidenza settarie. E’ difficile dire quali fattori definiscano l’appartenenza alla setta, se non il fatto di essere nati da genitori alawiti. Poiché la loro identità si fonda sul ruolo guida di Assad, hanno adottato un motto come “Assad per sempre”, che impedisce loro di distaccarsi dal regime e di immaginare una Siria senza Assad. Gli alawiti che osano opporsi al regime credono che incorreranno in una speciale punizione a causa del loro “tradimento”.
La rivolta dei Fratelli musulmani iniziata nel 1976, che ha portato alla guerra civile tra il ’79 e l’82, ha condizionato il modo in cui gli alawiti leggono le rivolte attuali. All’epoca, i Fratelli musulmani avevano tentato di riunire i sunniti in una lotta settaria. Uccisero molti intellettuali, giudici e medici alawiti. Il massacro dei candidati ufficiali nell’accademia militare di Aleppo nel 1979, insieme all’assassinio dello sceicco alawita Yusuf Sarem, sono ancora vivi nella memoria della comunità. La maggioranza sunnita, dal canto suo, ricorda la brutalità con cui è stata schiacciata la rivolta dei Fratelli musulmani: l’organizzazione è stata annientata in Siria e ancora oggi è largamente assente nelle attuali rivolte, anche se la maggior parte dei dimostranti odierni è costituita da sunniti conservatori. Quella di quest’anno è una rivolta popolare, particolarmente sentita tra i poveri, a differenza della sommossa dei Fratelli musulmani (che, per quanto abbiano perso molta credibilità dopo la repressione, continuano a essere influenti nell’opposizione che fomenta le paure alawite).
Nel 1981, lo storico Hanna Batatu scrisse: “A favorire la coesione nella congiuntura attuale è il forte timore, diffuso tra gli alawiti di tutti gli strati sociali, che su di loro potrebbero ripercuotersi conseguenze terribili se il regime esistente dovesse essere destituito dal potere o collassare”. Gli alawiti ritengono di essere più “liberali” e laici dei sunniti: consumano alcol, vivono più liberamente i contatti tra uomini e donne, l’abbigliamento e il comportamento femminili sono più occidentali. Si sentono offesi dalle voci diffuse dalla maggioranza sunnita, secondo le quali le loro pratiche religiose prevedono orge; così come li offende sentir dire che la Siria è un regime alawita e che per questo sarebbero privilegiati. In realtà, gli alawiti appoggiano la famiglia Assad in sé più che il regime, tant’è vero che criticano prontamente la corruzione dell’amministrazione statale.
Non potendo mobilitarsi come alawiti, si rivolgono alla famiglia al potere per seguirne la guida. Il regime però agisce nel proprio interesse, non in quello degli alawiti. Il blogger alawita Karfan ha scritto: “Cancellando tutte le forme di identità religiosa e impedendo agli alawiti di costruirsene un’altra altrove, gli alawiti sono stati semplicemente trasformati in una sorta di tribù, unita intorno a un unico obiettivo: mantenere il re al potere. Intanto tutti continuano a parlare di un ‘regime alawita’ e ad addossare tutte le sue responsabilità agli alawiti. Saremo destinati a portare il fardello delle colpe delle stesse persone che hanno distrutto la nostra religione”. Quando Hafez al Assad prese il potere, favorì la secolarizzazione del Partito baathista, fiaccandolo per trasformarlo in un partito pro Assad.
La solidarietà alawita e il sostegno di alcune ricche famiglie sunnite consolidarono il regime. All’indebolimento del Partito baathista seguì anche quello dei sindacati e delle organizzazioni imprenditoriali; il vuoto sociale fu riempito dai sunniti conservatori, le cui organizzazioni di beneficenza poterono svolgere un ruolo di crescente importanza. Anche i membri del clero sunnita ottennero qualche libertà (una decisione che, se in un primo momento aumentò i sostenitori del regime, ora alimenta le divisioni tra i sunniti e i servizi di sicurezza dominati dagli alawiti). La debolezza del partito baathista significa anche che il regime non può mobilitare gli abitanti intorno a nulla di diverso da Bashar al Assad, che ha preso il potere dopo la morte del padre, nel 2000. Tant’è vero che di questi tempi è facile capire se ci si trova in una zona alawita: sono luoghi in cui tutto lo spazio disponibile è tappezzato di immagini del presidente Bashar, del fratello Maher o del padre Hafez (mentre gli uomini sfrecciano avanti e indietro sulle moto, tutti con indosso le magliette di Bashar). Parlare con accento alawita può essere d’aiuto a superare i posti di blocco militari.
Il tassista che mi ha portato nel quartiere di Duma, una roccaforte dell’opposizione a Damasco, è un alawita di Latakia. Ha parlato con gli ufficiali al posto di blocco con l’accento alawita, sostenendo che fossi libanese; ci hanno fatto passare senza nemmeno guardare la mia carta d’identità. Di ritorno nel governatorato di Hama, invece, Abu Laith si preoccupa dei posti di controllo presidiati da uomini dell’opposizione. E’ pienamente consapevole dell’identità culturale di ognuno dei villaggi circostanti, e abbandona la strada principale per evitare l’irrequieta città sunnita di Hama. Passiamo dal povero villaggio alawita di Alamein, nei pressi di Tumin. “Tumin è un villaggio cristiano – mi spiega – Dei cristiani qui ci si può fidare. Tumin è ricca e la gente è molto buona”. Facciamo salire un autostoppista diretto a Rabia; è un soldato di ritorno dal lavoro. Sembra rilassarsi quando vede chi guida. Aveva paura di stare sulla strada, racconta, “paura dei terroristi”. Veste in abiti civili. “Perché mi farebbero fuori”, spiega. E’ ostile a tutti i sunniti, che ritiene responsabili della brutalità con cui sono stati uccisi i soldati. Abu Laith è a disagio: “Non sono tutti così”, ammonisce. I pullman pubblici ora attraversano Rabia per evitare i villaggi sunniti “meno sicuri”.
Grandi barriere di pietra bloccano l’ingresso alla città. Tre uomini armati di fucile e con le cinture foderate di munizioni ci fanno cenno di rallentare, fino a quando non riconoscono Abu Laith. Passiamo di fianco ad altri uomini che pattugliano la zona in moto con il fucile a tracolla e ci dirigiamo verso il cimitero cittadino. Forse un migliaio di persone partecipa al funerale di un soldato, Naeem Tarif, ucciso ad Hama. Molti dei partecipanti hanno con sé un’arma; alcuni bambini sventolano immagini del presidente. La strada che lascia la città in direzione ovest è anch’essa bloccata da massi di pietra e da un posto di blocco. Diversi uomini, tutti armati, se ne stanno seduti in un piccolo capanno di legno, che su una parete reca la scritta “Dio, Siria e Bashar, e nient’altro”. Molte strade di Rabia non sono asfaltate. Nel centro città troviamo una statua color rame lucido dell’ex presidente Hafez al Assad che con una mano brandisce una spada e nell’altra tiene un ramoscello d’olivo. Gli abitanti l’hanno fatta innalzare a proprie spese un mese prima, come mi racconta Abu Laith. “A Rabia ci sono solo scuole, niente parchi giochi o altro”, si lamenta Abu Laith. Mi porta alla casa del padre, dove il figlio di sei anni mi saluta chiedendomi immediatamente: “Stai coi nostri o coi loro?”.
“E tu con chi stai?”, gli chiede il padre. “Io sto con la Siria”. Gli uomini della sicurezza come Abu Laith sono da sempre più occupati degli altri, e raramente riescono a fare visita alle famiglie. Ha quattro fratelli nelle forze di sicurezza e uno disoccupato. “La maggior parte degli uomini qui fa parte delle forze di sicurezza – mi spiega – ma abbiamo pochissimi ufficiali. Non ci permettono di diventarlo”. Quanto a quei giorni d’agosto, Rabia ha pagato con dieci “martiri” delle forze di sicurezza e altri abitanti, forse 15, sono stati feriti negli scontri con i combattenti dell’opposizione armata. Altri due ufficiali delle forze di sicurezza di Rabia, due sergenti, sono stati uccisi alcuni giorni più tardi. Facciamo visita alla famiglia di Naeem Tarif, l’uomo di cui abbiamo visto il funerale poco prima, in una tenda fuori casa. Tarif aveva 40 anni, era un sergente con vent’anni di carriera.
E’ stato ucciso ad Hama una settimana fa, ma il suo corpo è stato trovato solo il giorno del mio arrivo. E’ stato decapitato, e il suo corpo bruciato, mi racconta il fratello. I video che ritraggono uomini armati mentre si liberano del corpo, trovati su alcuni cellulari sequestrati, sono stati trasmessi in tv e su Internet. “Abbiamo paura”, mi dice un nipote. “Tutto il villaggio è pronto a sacrificarsi per la nazione”, proclama un altro. Sono spaventati dai gruppi armati. “Già in passato sono stati qui, come cellule dormienti”, dice un parente. Sono tutti furenti con i mezzi di comunicazione internazionali perché non raccontano quanto sta succedendo loro. Incontro la famiglia di Issa Bakir, che da undici anni è sergente di polizia ad Aleppo.
Dopo aver fatto visita alla sua famiglia a Rabia, il 5 luglio, Issa stava tornando ad Aleppo, passando per Hama. E’ stato fermato a un posto di blocco. E’ stato colpito alla testa con un bastone, poi gli hanno tagliato la gola. “L’hanno fermato, hanno bruciato la macchina, l’hanno sgozzato e l’abbiamo trovato vicino alla moschea”, mi racconta il padre. Il fratello di Bakir lavorava con lui nella polizia di Aleppo, ma ora per andare al lavoro passa per Latakia, per evitare Hama. “L’hanno ucciso perché era alawita – continua il padre – I miei figli e io siamo un sacrificio offerto per la patria. Non siamo settari. Prima i nostri rapporti (con i sunniti) erano normali”. E’ lo stato che deve occuparsi di rendere giustizia al figlio, mi dice: “Non vogliamo vendetta. Perché non ci deve essere una logica settaria in Siria”. Non lontano vive Muhamad Khazem, un sergente della sicurezza di stato; ha 46 anni, è grande e grosso e riposa a letto, ferito. Mi mostra il foro d’ingresso di una pallottola, appena sotto la gola, e il punto da cui è uscita, sulla schiena, giusto una settimana prima. Lui e altre decine di uomini della sicurezza erano in missione per rimuovere i blocchi stradali dell’opposizione, quando è stato colpito. “E’ al Qaeda – sostiene il fratello – Ho combattuto nella guerra del ’73. Fosse stato Israele a ferire un siriano, l’avrebbero portato in ospedale, e se fosse morto l’avrebbero sepolto dignitosamente.
Gli israeliani hanno più compassione di questi altri, che sono selvaggi”. Rabia confina con due villaggi sunniti: Tizeen e Kifr Tun. L’elettricità viene da Tizeen e gli abitanti sostengono che i sunniti della città vicina di recente abbiano tagliato la linea elettrica. Li accusano anche di aver ucciso due uomini alawiti sei giorni prima. Gli alawiti di Rabia dicono che i villaggi sunniti di Mitneen, Arzi e Kifr Tun hanno espulso le famiglie alawite, e Rabia ha accolto gli sfollati. Il contadino Hamid Diab e i suoi otto figli sono stati tra le trenta famiglie espulse da Kifr Tun, dove vivevano dal ’59. Racconta che gli alawiti in città sono stati minacciati. Li hanno avvisati: “Vi sgozzeremo”. Una settimana prima, di mattina, erano stati attaccati da uomini armati. “Hanno bruciato pneumatici e hanno sparato per spaventarci”, racconta. “Alcuni sunniti sono brave persone e non l’hanno accettato: è stato un sunnita ad aiutarci a uscire”. Sostiene che uno dei membri del commando era un beduino che si fa chiamare Dahib al Thawra, “macellaio della rivoluzione”. Dice che gli abitanti di Rabia li hanno accolti bene, ma che hanno lasciato tutto a Kifr Tun. Ora non hanno accesso alle loro fattorie o ai loro orti. Non c’erano mai stati problemi prima della rivolta, sostiene, e i suoi figli erano andati a scuola con i bambini sunniti. Sospetta che prima l’odio fosse nascosto.
“E’ stata la gente del villaggio ad attaccarci. Erano usciti allo scoperto durante il Ramadan, quando avevano inviato il loro saluto a Bandar e Arur”, racconta, riferendosi al potente principe saudita Bandar bin Sultan e allo sceicco agitatore siriano Adnan al Arur. “Adorano tutti Arur da quelle parti, quando parlava alzavano il volume, così potevamo sentirlo da casa nostra”. Hamid mi dice che lo stesso giorno gli abitanti di Kifr Tun hanno assalito un alawita del villaggio di Addas mentre stava attraversando la città in moto, cospargendolo di benzina. Ha preso fuoco, ma altri abitanti l’hanno salvato. Non c’erano forze di sicurezza nel paese, mi dice. Solo una stazione di polizia nel villaggio alawita di Jarjara, che aveva competenza sui tanti villaggi della zona. “Non avevamo armi, altrimenti avremmo risposto al fuoco”, dice Hamid. “Le forze di sicurezza hanno bisogno dei carri armati per entrare nei villaggi. L’opposizione ha bloccato le strade. L’esercito deve entrare nei villaggi, ma è troppo occupato ad Hama. Perché lo stato temporeggia?”. Il padre di Abu Laith, Abu Iyad, soldato in pensione, è d’accordo: “Solo l’esercito può risolvere la situazione. Se rispondiamo, sarà una risposta settaria, gli altri villaggi si uniranno a loro e saranno più di noi”.
Per i vicini sunniti, Rabia è altrettanto preoccupante, perché rappresenta i fanatici alawiti, sostenitori del regime. Firas, uno degli organizzatori dell’opposizione nella città di Rasta, mi racconta del cugino Muhamad Hussein Shahul, un tassista 35enne che non partecipa all’attività dell’opposizione. A luglio, Shahul ha portato quattro operai che tornavano a casa, a Tizeen, dal Libano. La strada che attraversava la città di Hama era chiusa perché erano in corso degli scontri, per cui sono passati per la città cristiana di Kfarbo e poi da Rabia, dove, dice Firas “una banda di alawiti fedeli ad Assad” ha teso loro un’imboscata. Un passeggero è sfuggito, ma gli altri quattro uomini sono stati torturati e giustiziati. I cadaveri sono stati lasciati nella macchina, abbandonata vicino alla città di Masyaf prima di dare la notizia alle famiglie. “Non abbiamo potuto andarci noi”, continua suo cugino, “perché ci avrebbero uccisi”. I funzionari dell’esercito di Rastan hanno coordinato l’intervento con i colleghi di Masyaf, che hanno portato il corpo di Muhamad al confine con un villaggio alawita, dove la famiglia ha potuto recuperarlo per dargli sepoltura.
Enigma alawita
Il particolare magari è sconosciuto ai più, ma il regime siriano che alcuni, probabilmente non a torto, ritengono faccia parte a pieno titolo del cosiddetto “Asse del Male”, del tutto islamico islamico non è, quanto meno non in senso ortodosso. A prescindere dal fatto che Damasco è da decenni retta da una élite baathista almeno formalmente laica, il dato sorprendente è come di tale élite facciano parte molti alawiti, in un numero che proporzionalmente è davvero assai alto.
Ma chi sono gli alawiti (o alauiti che dir si voglia)? Storicamente, essi rappresentano un gruppo religioso mediorientale (null’altro che una setta per i mussulmani sunniti) diffuso principalmente in Siria. Bashar al-Assad, l’attuale presidente siriano, è un alawita, come, ovviamente, il padre Hafez al-Assad, nonché molti membri della nomenklatura siriana, una vera e propria lobby che da decenni ormai detiene il potere nel Paese mediorientale.
A lungo gli alawiti sono stati chiamati nusairi, namiriya o ansariyya, ma col il passare del tempo, nusairi è divenuto un termine spregiativo ed ormai essi preferiscono essere chiamati alawi (termine ufficialmente riconosciuto dai francesi quando nel 1920 occuparono la regione), soprattutto per sottolineare il legame con Ali, il cugino-cognato del Profeta Mohammad la cui figura è alla base dello scisma sciita.
L’origine della setta è da sempre oggetto di aspre divergenze d’opinione fra gli esperti. Secondo talune fonti, essi erano in origine dei nusayri, un gruppo scismatico degli sciiti duodecimani (IX secolo), ma gli alawiti fanno risalire le loro origini all’undicesimo imam sciita Hasan al-Askari (m. 873) ed al suo braccio destro Ibn Nusayr (m. 868). In realtà, pare che la setta sia stata organizzata in un secondo momento da un seguace di Ibn Nusayr, tale al-Khasibi, morto ad Aleppo intorno al 969. Un nipote di al-Khasibi, al-Tabarani, si sarebbe trasferito a Latakia, sulla costa siriana, e lì avrebbe gettato le basi teoretiche della fede nusayri e convertito la popolazione locale.
Secondo la vulgata più attendibile, quindi, gli alawiti vennero fondati nel X secolo, sotto gli hamdanidi di Aleppo, per venire poi perseguitati al crollo della dinastia, nel 1004. Durante la prima crociata, le truppe cristiane inizialmente li attaccarono, ma poi strinsero un’alleanza strategica in funzione anti-ismailita. Iniziò così una convulsa fase storica che portò gli alawiti ad essere sconfitti dagli ismailiti e dai curdi nel 1120 e, tre anni dopo, a vincere questi ultimi. Molto più tardi, nel 1297, si assistette ad un intelligente tentativo di fusione fra ismailiti e alawiti, tentativo che purtroppo non ebbe esito felice, pur essendo oltremodo evidenti le contiguità ideologiche fra i due gruppi.
Ma è sotto i mamelucchi che inizia una durissima repressione, che dal 1260 sostanzialmente giunge fino all’epoca moderna. Secondo alcune fonti, quando la Sublime Porta riuscì ad avere il completo controllo della Siria, nel 1516, oltre novantamila alawiti trovarono la morte. L’Impero ottomano perseguì una feroce politica discriminatoria contro gli alawiti e le loro terre furono confiscate e date in premio a dei coloni turchi, alcuni dei quali finirono comunque per convertirsi alla fede alawita.
Dopo il crollo dell’Impero successivo al primo conflitto mondiale, Siria e Libano vennero poste sotto il mandato internazionale di Parigi, che concesse ampia autonomia agli alawiti ed alle altre minoranze. La nuova situazione innescò un profondo desiderio di indipendenza nei capi tribù alawiti, che nel 1925 diedero vita al territorio degli “Alaouites”, cui nel 1930 fece seguito il Governo di Latakia, esperimento che ebbe fine ai primi del 1937.
Nel 1939 Parigi decise di cedere ai turchi una porzione della Siria nord-occidentale, scatenando la reazione degli alawiti. Un giovane capo tribale, Zaki al-Arsuzi, si pose alla guida del movimento di resistenza, acquisendo una certa notorietà. In seguito, insieme a Michel Aflaq, sarebbe divenuto uno dei fondatori del partito baathista.
A secondo conflitto mondiale finito, la Siria acquisì la completa indipendenza (16 aprile 1946) e le province alawite vennero inglobate nella nuova entità statale. Furono anni assai caotici per i siriani tutti. La guerra arabo-israeliana del 1948 per il controllo della Palestina produsse a Damasco tutta una serie di sanguinosi colpi di Stato militari. A calma riottenuta, si pensò di procedere sulla strada dell’audace sperimentazione geopolitica ideata da Nasser: la fusione di Egitto e Siria nella Repubblica Araba Unita (1958). L’unione resse appena tre anni e nel 1961, approfittando della nuova fase di confusione istituzionale, il partito Baath prese il potere grazie ad un comitato militare che vedeva fra i suoi membri diversi ufficiali alawiti, tra i quali il colonnello dell’Aeronautica Hafez al-Assad, il futuro “leone di Damasco”. Nel 1970 al-Assad prese il potere e l’anno successivo si proclamò presidente. Da allora gli alawiti dominano la Siria, dando vita al paradosso di un Paese sunnita guidato da una setta sciita.
A seguito delle loro fortune politiche, migliorò notevolmente anche l’immagine complessiva degli alawiti nel mondo islamico. Nel 1974, l’imam Musa al-Sadr, capo spirituale degli sciiti duodecimani libanesi, concedendo un riconoscimento atteso da circa un millennio, li definì ufficialmente veri mussulmani. Fu un passo di grande rilevanza per gli alawiti, considerato come fino a quel momento le autorità religiose islamiche, sia sciite che sunnite, si erano sempre rifiutate di considerarli dei correligionari.
Ad onor del vero, a tutt’oggi la gran parte del mondo sunnita e sciita rifiuta di riconoscere gli alawiti quali confratelli e ciò rende ancor più singolare la situazione siriana. La famiglia Assad è stata molto abile in questi ormai quasi quarant’anni di ininterrotto potere a promuovere la tolleranza religiosa in Siria, ma un regime change a Damasco potrebbe anche produrre un crollo verticale della condizione degli alawiti, per i quali non sarebbe da escludere, una volta caduto al-Assad, un nuovo periodo di persecuzioni.
Com’è facile immaginare, la maggioranza dei sunniti siriani faticò non poco ad accettare l’idea degli alawiti al potere. Il gruppo terroristico dei Fratelli Musulmani cercò quindi di porre rimedio all’inedita situazione con un clamoroso attentato ad Hafez al-Assad il 25 giungo 1980. Il pretesto fu l’eliminazione dalla Costituzione siriana dell’articolo che definiva l’Islam religione di Stato (per tacere del fatto che al-Assad non era considerato un mussulmano). L’attentato fallì ed il Leone di Damasco rispose con un vero e proprio massacro nella roccaforte sunnita di Hama, con oltre 10.000 persone uccise, molte delle quali simpatizzanti dei Fratelli Mussulmani. Dopo questi terribili eventi, i sunniti giocoforza finirono con l’accettare lo status quo.
Nel corso degli anni, la famiglia al-Assad si è molto impegnata per garantire alle varie tribù una giusta rappresentanza ai vertici delle Forze Armate, nello stesso modo in cui ha sempre cercato di ripartire equamente gli incarichi governativi fra i numerosi gruppi etnici e religiosi che compongono la variegata galassia siriana. Negli ultimi mesi, però, per la prima volta dopo decenni di potere, gli alawiti hanno cominciato a temere seriamente il crollo del regime, crollo che li trascinerebbe tutti nella polvere in men che non si dica.
Ma, a ben vedere, questo periodo di ribalta e dominio non rappresenta poi molto rispetto al millennio di sanguinose lotte per la propria identità vissuto dagli alawiti. Con un pizzico di cinismo si può affermare come, una volta disarcionato il giovane presidente, essi semplicemente torneranno ad essere quello che sono sempre stati, una goccia eretica nel mare della Siria sunnita.
———————————————————Cenni demografici
In Siria, gli alawiti vivono oggi nelle montagne e lungo la costa del Mar Mediterraneo, concentrati prevalentemente nelle città di Latakia e Tartus, nonché nelle piane attorno ad Hama e Homs. In ogni caso, coerentemente con il loro status di élite di potere, sono diffusi anche in tutte le altre principali città del Paese, soprattutto nella capitale Damasco. Le stime demografiche sul loro numero variano tra 1.5 e 1.8 milioni, ossia circa il 12% dell’intera popolazione siriana. Inoltre, ci sono circa 100.000 alawiti che vivono il Libano ed altri che vivono nelle regioni di Hatay, Adana e Mersin, nella Turchia meridionale.
In Siria, gli alawiti vivono oggi nelle montagne e lungo la costa del Mar Mediterraneo, concentrati prevalentemente nelle città di Latakia e Tartus, nonché nelle piane attorno ad Hama e Homs. In ogni caso, coerentemente con il loro status di élite di potere, sono diffusi anche in tutte le altre principali città del Paese, soprattutto nella capitale Damasco. Le stime demografiche sul loro numero variano tra 1.5 e 1.8 milioni, ossia circa il 12% dell’intera popolazione siriana. Inoltre, ci sono circa 100.000 alawiti che vivono il Libano ed altri che vivono nelle regioni di Hatay, Adana e Mersin, nella Turchia meridionale.
La dottrina
Tradizionalmente gli alawiti si dividono in cinque diramazioni: ghaybiyya, haydariyya, murshidi (da Sulayman al-Murshid), shamsiyya (setta del Sole) e qamariyya (setta della Luna). Questi rivoli, per così dire, seguono una suddivisione prevalentemente tribale, ancora molto forte in Siria.
Tradizionalmente gli alawiti si dividono in cinque diramazioni: ghaybiyya, haydariyya, murshidi (da Sulayman al-Murshid), shamsiyya (setta del Sole) e qamariyya (setta della Luna). Questi rivoli, per così dire, seguono una suddivisione prevalentemente tribale, ancora molto forte in Siria.
La religione alawita ha molte similitudini con l’Ismailismo. Come gli sciiti ismailiti, gli alawiti credono in un sistema di incarnazione divina, così come ad una lettura prevalentemente esoterica del Corano. Contrariamente agli ismailiti, però, gli alawiti considerano Ali come una delle incarnazioni della triade divina: Ali è il Significato, Muhammad, che Ali creò con la sua luce, è il Nome e Salman al-Farisi il Cancello.
La religione alawita è ammantata nel più assoluto riserbo e gli alawiti oggi non accettano convertiti, né consentono la pubblicazione dei loro testi sacri. Risultato di tale scelta di segretezza è che la gran parte degli alawiti stessi conosce ben poco della propria dottrina, custodita gelosamente da una ristretta cerchia di iniziati di sesso maschile.
Del resto, la teologia alawita sembra basarsi prevalentemente sullo gnosticismo e sul tesi assai vicine al neoplatonismo. Secondo la cosmogonia alawita, in principio tutte le persone erano delle stelle in un mondo di luce, ma a causa di un atto di disobbedienza precipitarono dal firmamento. La visione gnostica si evidenzia soprattutto nella teoria del mondo materiale visto quale luogo impuro costellato di mortali pericoli.
Considerata la natura altamente sincretistica della dottrina alawita (secondo diverse fonti, i loro riti comprenderebbero addirittura frammenti millenari dei rituali sacrificali fenici), non manca chi, fra gli studiosi, sostiene una correlazione fra i cristiani e gli alawiti. Del resto, questi ultimi adorano una loro Trinità, utilizzano il vino durante alcune celebrazioni liturgiche e riconoscono il Natale. I punti di distanza con la vulgata mussulmana sono tali che agli inizi degli anni Venti i francesi cercarono addirittura di spingere i principali shaykh alauiti a dichiarare la propria religione distinta dall’Islam, anzi, proprio non-musulmana. Le autorità religiose alawiti rifiutarono, preferendo mantenere la propria identità storica. Cionondimeno, negli ultimi decenni gli alawiti hanno pagato un prezzo assai alto per il successo politico, di fatto negando la loro distintiva tradizione religiosa e quasi finendo per convertirsi all’Islam sunnita.
Apparso su il Domenicale di sabato 15 aprile 2006 con il medesimo titolo
siria Cristiani
Come un topolino tra due elefanti in lotta – così come mostra una vignetta apparsa sulla stampa araba – la maggioranza dei cristiani di Siria teme di diventare la vittima sacrificale di una “imminente guerra civile” tra gli alawiti, branca minoritaria dello sciismo a cui appartengono i clan al potere a Damasco, e i sunniti, maggioranza della popolazione in rivolta da oltre sei mesi.
Sin dallo scoppio delle prime proteste, i vertici delle chiese cattoliche e ortodosse di Siria hanno a più riprese espresso pubblicamente il loro sostegno alla politica del presidente Bashar al Assad, ripetendo il mantra della propaganda ufficiale: “riforme e dialogo”. Secondo le stime dell’Onu, aggiornate ad agosto, sono circa 2.700 i siriani uccisi dalla repressione governativa, portata avanti dai servizi di sicurezza, dalle milizie lealiste (shabbiha) e da alcuni reparti dell’esercito: tutte forze saldamente controllate da membri degli Assad o di altre famiglie alawite.
I cristiani in Siria rappresentano poco meno del 10% della popolazione, quanto gli alawiti (circa l’11), mentre i tre quarti dei siriani sono sunniti. Nel 1964 e, poi, nel triennio 1979-82, il regime baathista fu scosso da proteste, anche armate, portate avanti dai Fratelli musulmani, movimento islamico sunnita illegale dal 1980.
Gli storici ricordano che il presunto estremismo insito nei sunniti è però in contrasto con secoli di convivenza pacifica tra loro e le altre comunità confessionali. Per la prima volta nella Siria indipendente, il ministro della Difesa è un cristiano: l’estate scorsa il generale Dawud Rajha aveva preso il posto dell’alawita Ali Habib, ufficialmente malato, ma secondo molti epurato (forse ucciso) perché si era opposto all’impiego dei soldati nell’uccisione di civili.
“La nomina di Rajha a capo formale della repressione dimostra che il regime intende farsi scudo dei cristiani”, ha detto Raja A., pseudonimo di uno dei coordinatori sunniti della mobilitazione di Homs, terza città siriana che finora ha pagato il tributo di sangue più alto alla rivolta (circa 850 uccisi).
Proprio Homs – secondo Raja – è un microcosmo di tutta la Siria: “una maggioranza sunnita che circonda un quartiere cristiano e due zone alawite”. Secondo l’attivista intervistato a Beirut, i cristiani sono paralizzati da due paure: quella presente di esser attaccati dagli shabbiha se il regime dovesse dubitare della loro realtà, e quella di esser vittima di un futuro post-Assad in salsa fondamentalista.
Timore espresso martedì dal cardinale libanese maronita Bishara al Rai, patriarca della maggiore chiesa cattolica d’Oriente, che già nelle settimane precedenti aveva definito Assad “un riformatore” a cui concedere altro tempo, un “poverino” a cui “non si possono chiedere miracoli”.”Non vogliamo che gli eventi in corso in Siria portino a una guerra civile sunno-alawita, in cui i cristiani sarebbero inevitabilmente vittime”, aveva detto al Rai.
Michel Kilo, decano degli oppositori siriani in patria, più volte in carcere per le sue opinioni, è cristiano. Come Fayez Sara, un altro noto dissidente. “Ognuno ha diritto ad avere paura, ma perché – si interroga retoricamente Kilo parlando al quotidiano libanese an Nahar – andare persino contro i propri interessi, opporsi alla libertà, alla cittadinanza, al rispetto dei diritti umani? I cristiani vanno comunque rassicurati: l’estremismo non è nel sangue dei siriani”.
Lo stesso Kilo sabato scorso era asceso all’antico monastero di Mar Musa, nel deserto siriano tra Damasco e Homs, vent’anni fa riportato alla vita dal gesuita italiano Padre Paolo Dall’Oglio, che ancora oggi guida la comunità monastica. Kilo si era unito al digiuno di Dall’Oglio, di altri monaci e di alcuni fedeli musulmani anch’essi saliti a Mar Musa nell’ambito di un periodo di jihad (impegno) spirituale per la “riconciliazione in Siria”. (Scritto per Ansa il 28 settembre 2011).
Sin dallo scoppio delle prime proteste, i vertici delle chiese cattoliche e ortodosse di Siria hanno a più riprese espresso pubblicamente il loro sostegno alla politica del presidente Bashar al Assad, ripetendo il mantra della propaganda ufficiale: “riforme e dialogo”. Secondo le stime dell’Onu, aggiornate ad agosto, sono circa 2.700 i siriani uccisi dalla repressione governativa, portata avanti dai servizi di sicurezza, dalle milizie lealiste (shabbiha) e da alcuni reparti dell’esercito: tutte forze saldamente controllate da membri degli Assad o di altre famiglie alawite.
I cristiani in Siria rappresentano poco meno del 10% della popolazione, quanto gli alawiti (circa l’11), mentre i tre quarti dei siriani sono sunniti. Nel 1964 e, poi, nel triennio 1979-82, il regime baathista fu scosso da proteste, anche armate, portate avanti dai Fratelli musulmani, movimento islamico sunnita illegale dal 1980.
Gli storici ricordano che il presunto estremismo insito nei sunniti è però in contrasto con secoli di convivenza pacifica tra loro e le altre comunità confessionali. Per la prima volta nella Siria indipendente, il ministro della Difesa è un cristiano: l’estate scorsa il generale Dawud Rajha aveva preso il posto dell’alawita Ali Habib, ufficialmente malato, ma secondo molti epurato (forse ucciso) perché si era opposto all’impiego dei soldati nell’uccisione di civili.
“La nomina di Rajha a capo formale della repressione dimostra che il regime intende farsi scudo dei cristiani”, ha detto Raja A., pseudonimo di uno dei coordinatori sunniti della mobilitazione di Homs, terza città siriana che finora ha pagato il tributo di sangue più alto alla rivolta (circa 850 uccisi).
Proprio Homs – secondo Raja – è un microcosmo di tutta la Siria: “una maggioranza sunnita che circonda un quartiere cristiano e due zone alawite”. Secondo l’attivista intervistato a Beirut, i cristiani sono paralizzati da due paure: quella presente di esser attaccati dagli shabbiha se il regime dovesse dubitare della loro realtà, e quella di esser vittima di un futuro post-Assad in salsa fondamentalista.
Timore espresso martedì dal cardinale libanese maronita Bishara al Rai, patriarca della maggiore chiesa cattolica d’Oriente, che già nelle settimane precedenti aveva definito Assad “un riformatore” a cui concedere altro tempo, un “poverino” a cui “non si possono chiedere miracoli”.”Non vogliamo che gli eventi in corso in Siria portino a una guerra civile sunno-alawita, in cui i cristiani sarebbero inevitabilmente vittime”, aveva detto al Rai.
Michel Kilo, decano degli oppositori siriani in patria, più volte in carcere per le sue opinioni, è cristiano. Come Fayez Sara, un altro noto dissidente. “Ognuno ha diritto ad avere paura, ma perché – si interroga retoricamente Kilo parlando al quotidiano libanese an Nahar – andare persino contro i propri interessi, opporsi alla libertà, alla cittadinanza, al rispetto dei diritti umani? I cristiani vanno comunque rassicurati: l’estremismo non è nel sangue dei siriani”.
Lo stesso Kilo sabato scorso era asceso all’antico monastero di Mar Musa, nel deserto siriano tra Damasco e Homs, vent’anni fa riportato alla vita dal gesuita italiano Padre Paolo Dall’Oglio, che ancora oggi guida la comunità monastica. Kilo si era unito al digiuno di Dall’Oglio, di altri monaci e di alcuni fedeli musulmani anch’essi saliti a Mar Musa nell’ambito di un periodo di jihad (impegno) spirituale per la “riconciliazione in Siria”. (Scritto per Ansa il 28 settembre 2011).
Gli Alawiti: i fedelissimi degli Assad

Il regime siriano degli Assad dopo tanti mesi di manifestazioni oceaniche si mantiene al potere continuando la sua durissima repressione I motivi vanno individuati nella particolare complessità del caso Siria e in particolate nel decisivo sostegno degli Alawiti
La setta alawita costituisce circa il dieci per cento della popolazione siriana. i sunniti costituiscono il 65 per cento, mentre curdi sunniti e cristiani costituiscono il dieci per cento ciascuno. Ismailiti drusi, sciiti, e altri gruppi minori formano il resto. Da quando pero il partito baath (socialista) di Assad ha preso il potere in Siria, il settarismo è diventato un tabù: ogni riferimento alle identità religiosa è stata duramente repressa ma l’appartenenza religiosa è rimasta nascosta ma non superata a somiglianza di quanto è avvenuto nella Yugoslavia comunista di Tito
Ma in qualunque forma l’identità religiosa ed etnica esiste in tutte le società, e in tempi di crisi, la identità collettiva viene spesso a indebolirsi èe la l’appartenenza etnico- religiosa ritorna fortissima .
Se l’elite ricca trascende queste identificazioni e tiene più conto della classe sociale, della professione, e altri fattori il riferimento etnico religioso si mantiene nella gente comune e come nei Balcani possono riesplodere improvvisamente e drammaticamente
Non si sa molto della fede alawita – anche tra la stessa comunità alawita –perche le sue credenze e le sue pratiche sono disponibili solo per pochi iniziati ma si sa che ha alcune dottrine lontane dell’Islam : credenza nella trasmigrazione dell’anima, la reincarnazione, la divinità di Ali ibn Abi Talib – il quarto califfo e cugino del Profeta Muhammad – e una santa trinità che comprende Ali , Muhamad e uno dei compagni del profeta, Salman al Farsi.
Nel mondo arabo la maggioranza sunnita esercita da sempre una egemonia che spesso ha perseguitato le sette di minoranza. come gli Alawiti. Un tema comune quindi della identità alawita è la paura di egemonia sunnita, basato su una storia di persecuzione che si è conclusa solo con la scomparsa dell’impero ottomano. Infatti con il mandato francese che ha sostituito l’impero ottomano nel 1918 gli Alawiti, come altre minoranza (per esempio i Maroniti del vicino Libano) hanno superato la marginalità tradizionale e iniziato anche un marcia verso l’egemonia e il potere favorita dal fatto che per forza di cose sono i sostenitori del laicismo che coincide con la loro emancipazione
Gli Alawiti sono stati i maggiori sostenitori del partito Baath ( socialista e laico) e della la sua ideologia pan-araba che era un modo per trascendere la stretta identità settaria, Inoltre l’occupazione negli uffici statali e soprattutto nell’esercito erano una opportunità per la promozione sociale e di fuga dalla povertà.
Cosi nel 1955, la maggior parte degli ufficiali che portaronoo il bath al potere erano Alawiti, che controllavano anche accademie militari,
Nel 1970 il potere fu preso dall’alawita ,Hafez al-Assad .il padre del presente rais che si circondò di persone del suo gruppo di cui poteva maggiormente fidarsi: la setta fu sovra-rappresentata nelle istituzioni statali.
Dal 1960, il regime siriano ha incoraggiato i contadini,soprattutto alawita, ad emigrare dalle regioni di montagna alla pianura, dando loro proprietà delle terre che erano appartenute ad una elite a maggioranza sunnita
Tuttavia poi la stessa identità degli Alawiti è stata spostata dall’ambito religioso a quello politico: la comunità non si identifica più nel proprio credo religioso ma solo e semplicemente nel sostegno della famiglia Assad mentre lo stesso Bath ha perduto ogni ideale iniziale.
Gli Alawiti erano storicamente respinti dell’Islam. Per essere accettato come leader, Assad ha dovuto convincere i sunniti che gli Alawiti erano in sostanza dei buoni mussulmani , Attualmente gli Alawiti non ricevono nessuna istruzione sulla loro stessa religione. i libri di scuola siriana non contengono alcuna menzione della parola “alawita”. L’educazione islamica nelle scuole siriane è tradizionale, rigida, e sunnita, non si fa nessun tentativo di inculcare nozioni di tolleranza e rispetto delle tradizioni religiose diverse dall’ islam sunnita tranne che per il cristianesimo che è un’eccezione
Il regime ha negato qualsiasi spazio pubblico agli Alawiti per praticare la loro religione. non riconoscono alcun consiglio alawita che possa elaborare elementi dottrinali e molti siriani la percepiscono come una fede misteriosa.
Gli Alawiti hanno fatto forse un buon affare economico- politico ; hanno perso la propria identità e accettato il mito che erano “buoni musulmani” per vincere l’opposizione sunnita La perdita del ruolo tradizionale dei capi Alawiti, impedisce loro di stabilire posizioni e di impegnarsi come una comunità nei confronti delle altre comunità siriane – rafforzando i timori settari e i sospetti .
Fra le confessioni siriane gli ,Alawiti sono i più laici possono vantare il maggior numero di matrimoni interconfessionali, e sono i più integrati con altre sette, nei rapporti sia personali che aziendali.
Gli Alawiti percepiscono se stessi come i più liberali e laici dei musulmani i Essi indicano il loro consumo di alcol, l’interazione libera tra i loro uomini e donne e il modo più occidentale del vestire e del comportarsi delle donne
E ‘ difficile dire che cosa rende qualcuno un alawita, tranne che che essere figlio di un alawita.
La maggioranza sunnita, nel frattempo, ricorda la brutalità con cui è stato schiacciato la insurrezione armata dei Fratelli Mussulmani che furono eliminati fisicamente in Siria e in gran parte sono assenti dalla rivolta in corso, anche se la maggior parte dei manifestanti di oggi sono sunniti conservatori.
Gli Alawiti aanno adottato lo slogan “Assad per sempre”, incapaci di separarsi dal regime o immaginare una Siria senza Assad. Percepiscono come un tradimento vergognoso non sostenerlo fino all’ultimo.
L’opposizione non è riuscita ad articolare una visione per quello che succederà alle decine di migliaia di Alawiti delle forze di sicurezza e dello Stato. ma minacciano di punire in futuro coloro che attivamente sostengono il regime
La fine del regime influirà direttamente quasi su ogni famiglia alawita.
E ‘facile dire se s è in una zona alawita in Siria in questi giorni. Sarà il luogo dove è addobbato ogni spazio disponibile con le foto del presidente Bashar, il fratello Maher e il loro padre Hafez. Si tratta di un culto della personalità, con muri portanti i graffiti: “Assad per sempre”e foto del presidente.
Gli Alawiti però negano di controllare lo stato, affermano anzi di essere sotto rappresentati nelle cariche pubbliche, che non hanno alcun fine settario che ma che si battono solo per la Siria, per tutta la Siria
Accusano i rivoltosi di essere degli ignoranti, di essere eterodiretti da un complotto internazionale guidato da sionisti e americani ( eterno ritornello di tutti le dispute fra Arabi) Affermano poi che gli Stati Uniti sono in combutta con gli islamisti il che suona molto strano ma viene giustificato dal fatto che gli Americani vorrebbero contrastare nel Medio Oriente l’influenza cinese
Starebbero usando gruppi musulmani contro la Cina; dicono che il Corano parla della minaccia da una invasione gialla. ( che però, in verita non ci risulta )
Con la presa di Tripoli dei ribelli libici assistiti dalla NATO sono preoccupati per la possibilità di un intervento Nato o della Turchia, loro potente vicino.
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